La vicenda catalana, dall’esito ancora incerto, non pone soltanto questioni che riguardano la politica interna spagnola. Appare evidente, infatti, che il distacco della Catalogna dalla Spagna avrebbe inevitabilmente conseguenze politiche ed economiche i cui effetti si avvertirebbero in tutta l’Unione europea. Ne stiamo vedendo un’anticipazione in queste ore con le notizie di una fuga, le cui proporzioni reali sono difficili da valutare, da parte di investitori, imprese e piccoli risparmiatori, che cercano di mettere i propri soldi al riparo dall’onda d’urto che potrebbe seguire a una dichiarazione di indipendenza, per quanto dubbia sul piano costituzionale.

L’importanza di quel che sta accadendo in Spagna è anche nel carattere esemplare di una concatenazione di eventi che ci aiuta a riflettere sulla crisi di legittimità delle istituzioni rappresentative che sta investendo, in forme leggermente diverse a seconda dei contesti, tutte le democrazie liberali. Sotto questo profilo si potrebbe parlare di una vera e propria “destabilizzazione democratica” di questi regimi, perché essa avviene attraverso la messa in discussione delle forme e delle procedure tipiche della rappresentanza parlamentare, che vengono scavalcate, erodendone la legittimità, con il ricorso alla volontà popolare espressa in quella che viene percepita come una forma non mediata.

La manifestazione forse più interessante di questa tendenza la troviamo nel Regno Unito. Un regime parlamentare che eravamo abituati a considerare paradigmatico per la sua stabilità ed efficienza – non a caso si parlava di un “modello Westminster” – che negli ultimi anni è sottoposto a una pressione continua e crescente da parte di partiti locali o coalizioni di interessi che invocano il ricorso alla volontà diretta del popolo per risolvere questioni che un tempo sarebbero state affidate senza alcun dubbio alla deliberazione parlamentare. Al referendum che reclamava l’indipendenza per la Scozia è seguito quello per la Brexit, e non passa giorno senza che qualcuno nel Regno Unito chieda la convocazione degli elettori per pronunciarsi nuovamente su entrambe le questioni. Non è difficile immaginare che, prima o poi, il ricorso al referendum potrebbe essere evocato per altre questioni spinose, da quella nordirlandese, resa nuovamente problematica dall’esito del referendum sulla Brexit, a quella del Galles o, perché no, della successione al trono quando l’attuale monarca verrà a mancare. Ecco perché credo si possa parlare di un vero e proprio processo di erosione della legittimità parlamentare. Poco a poco comincia a farsi strada l’idea, accolta da una parte dell’opinione pubblica e caldeggiata da diversi demagoghi, che il processo legislativo tradizionale sia obsoleto e che sia opportuno integrarlo attraverso il ricorso diretto alla volontà popolare. Sempre più spesso quindi i Parlamenti operano all’ombra di un referendum, anche soltanto ipotetico, il cui esito immaginato non può che condizionarne gli orientamenti.

La fiducia con cui Stefano Rodotà, alla fine degli anni Settanta, affermava che referendum e processo legislativo si integrano utilmente appare oggi mal riposta. L’indiscutibile valore simbolico dell’appello alla volontà popolare – cos’altro conta in democrazia? – può avere effetti dirompenti sul modo di funzionare della democrazia rappresentativa, aprendo la strada a quella che Giovanni Sartori chiamava una “democrazia referendaria”. In un certo senso questa tendenza può essere considerata una conseguenza dello sviluppo tecnologico. Le forme tradizionali della rappresentanza parlamentare erano pensate per un mondo di viaggi relativamente lunghi e dispendiosi, in cui le comunicazioni erano ben lontane dal carattere istantaneo reso possibile dalla Rete. In una realtà in cui quasi chiunque è, almeno apparentemente, a portata di mano, e il presidente degli Stati Uniti passa una parte significativa del proprio tempo su Twitter, si comprende che un numero sempre maggiore di persone possa avvertire la rappresentanza parlamentare come inadeguata, una forma di mediazione di cui fare a meno.

Assumere un atteggiamento di negazione rispetto a questo cambiamento sarebbe inutile e forse persino controproducente. Ciò di cui c’è bisogno è quindi una sobria e lucida riflessione sui modi in cui la richiesta di disintermediazione che trova espressione nella “destabilizzazione democratica” dei regimi parlamentari può trovare risposta. Segnalandone al contempo i limiti. Proprio Giovanni Sartori sottolineava che in una “democrazia referendaria” diventa cruciale il potere di chi formula i quesiti da sottoporre alla volontà popolare. In un regime i cui sostenitori vorrebbero di trasparenza massima, quel potere si presta a un uso opaco e potenzialmente distorto. Gli studi di scienze cognitive hanno confermato questa perplessità di Sartori. Non è privo di conseguenze che un quesito usi l’espressione “indipendenza” o quella “autonomia”, che hanno valenze positive, rispetto ad altre, magari più accurate tecnicamente, ma meno evocative. Gli eventi di questi giorni ci mostrano che è arrivato il momento di mettere la “destabilizzazione democratica” in cima all’agenda delle riforme di cui i regimi parlamentari hanno bisogno per sopravvivere.