La discussione sulle droghe è da tempo arenata nel binario morto delle battaglie ideologiche. Da un parte quanti, in nome di una pretesa, illimitata libertà di scelta individuale, ritengono che l’accesso alle sostanze stupefacenti (in primo luogo a quelle cosiddette leggere) non possa subire veti o interdizioni di sorta da parte dello Stato. Dall’altro coloro che invocano lo sbarramento dei divieti quale unica e irrinunciabile soglia per una società ordinata e moralmente ben orientata

Nel mezzo, tra proibizionisti e liberalizzatori, quanti più semplicemente guardano allo spettro della criminalità organizzata e agli enormi profitti che il traffico delle droghe produce quotidianamente, ritenendo che la distribuzione controllata dello stupefacente da parte dello Stato sia l’unico mezzo per chiudere il rubinetto del narcotraffico, anziché raccogliere in terra l’acqua, dispersa in mille rivoli, delle reti di spaccio.

Ciascun punto meriterebbe di essere approfondito e posto al setaccio dei valori costituzionali che materialmente orientano la società italiana nel Terzo millennio. Per evitare una discussione lunga e, forse, scontata potrebbe essere opportuno spostare l'attenzione sul rapporto, assiologicamente complesso e controverso, tra «vizi» (si consenta la semplificazione) e diritto. Ossia guardare alla propensione dell’umanità, da Adamo ed Eva in poi, a consumare «frutti avvelenati» e alla necessità dello Stato di contenere, disciplinare, incanalare la controversa tendenza di una parte dei consociati ad approvvigionarsi di beni illegali. I tentativi storicamente dati di questo approccio sono noti.

Dal proibizionismo americano degli anni Venti alla chiusura in Italia della case di tolleranza, dalla leva fiscale sui tabacchi e l’alcol sino all’alleggerimento delle pene per lo spaccio di lieve entità del 2014: tutte politiche complesse che, spesso, hanno visto l’Erario, più che lo Stato, porsi in posizione di strenuo antagonista dei «competitor illegali». Guardando le cose da vicino si possono azzardare alcune considerazioni.

Lo Stato ha strenuamente combattuto, sino alla fine degli anni Novanta, il contrabbando di sigarette. La rotta albanese e quella cinese erano fonte di continua preoccupazione per i monopoli, che vedevano il mercato dei tabacchi insidiato dall’arrivo di centinaia di tonnellate di tabacchi lavorati esteri e venduti a minor prezzo nei bazar della penisola. Politiche repressive e un largo impiego di uomini e mezzi, con basi persino in Albania (il porto di Valona), hanno contenuto e praticamente debellato il fenomeno. Ma ciò, da solo, non sarebbe stato risolutivo. Si è avuta anche l’intelligenza di cercare un punto di equilibrio nel prezzo di vendita delle sigarette da parte dello Stato, e così il contrabbando ha finito per dirigersi verso Paesi (in primis la Gran Bretagna) in cui il costo al consumo delle sigarette era molto più elevato che in Italia. Il fixing price dei tabacchi è questione delicata. Prezzi troppi bassi incentivano i consumi. Prezzi troppo alti deprimono i consumi legali e avvantaggiano quelli illegali. Si potrebbe dire la stessa cosa per l’alcol, per il quale il monopolio legale non è stato mai sostanzialmente intaccato dalle produzioni illegali, almeno dall’America di Al Capone in poi.

È una questione di prezzo, quindi. La leva del costo induce il consumatore a comportamenti adeguati. Certo, qualsiasi persona di buon senso vorrebbe che lo Stato imponesse dazi proibitivi per le sigarette o l’alcol, al fine di evitare disastrosi danni alla salute e drammatiche ricadute personali e familiari. Tuttavia, la presenza dei mercati paralleli clandestini esige, come detto, un contenimento della leva fiscale e suggerisce soluzioni diverse, volte alla persuasione e alla dissuasione dei consumatori (basta vedere le immagini di morte apposte sui pacchetti di sigarette o le avvertenze nella pubblicità di prodotti alcolici o le pene per chi guida in stato di ebrezza). Un percorso lungo e difficile, in cui lo Stato ha rinunciato ad agire con eccessiva risolutezza sul fronte dell’imposizione fiscale per non agevolare la penetrazione dei contrabbandieri. Lo abbiamo detto, il rapporto tra beni illeciti e diritto è una relazione complessa in cui la repressione, penale o fiscale, non consegue risultati certi e automatici. Alcol, sigarette, prostituzione sono la più evidente dimostrazione di una sorta di arretramento delle prerogative statuali di repressione in favore di politiche flessibili e di lunga durata che agevolino l’allontanamento dei consumatori dai mercanti illegali.

Resta il mercato delle droghe. In questo caso, come detto in premessa, la partita ideologica è più aspra e, probabilmente, non hanno giovato a un approccio sereno al problema manifestazioni di radicalismo liberale che volevano saldare l’idea del consumo delle droghe (soprattutto leggere) alla convinzione che si sarebbe così affrancata la società da vincoli di ordine religioso o moralistico.

Una prima conclusione sul punto non può prescindere dalla considerazione che le droghe producono un circuito di illegalità che, forse volutamente, non viene misurato dalle statistiche giudiziarie e di polizia. Si dice, ad esempio, che le estorsioni in Italia nell’ultimo anno abbiano avuto un incremento di parecchi punti percentuali. Ma si omette di dire che molte di queste estorsioni non sono commesse dalle mafie, ma da tossicodipendenti in ambito familiare. Genitori, nonni, fratelli sono continuamente vessati dai giovani assuntori di droghe, in gran parte inoccupati, che talvolta praticano violenze inaudite per procurarsi denaro e droga. La stessa cosa potrebbe dirsi per gli scippi e le rapine. Esiste una “cifra oscura” dei reati connessi alle tossicodipendenze che nessuno rivela al Paese nelle sue esatte dimensioni. Eppure la pratica delle aule di giustizia è chiara ogni giorno e consegna un quadro drammatico.

Una seconda conclusione è che da oltre trent’anni il prezzo al consumo delle droghe pesanti (cocaina in primo luogo) e leggere non subisce alcuna variazione apprezzabile. L’offerta di stupefacente è così alta e variegata che il prezzo, ad esempio, della cocaina non è neppure scalfito dai sequestri di polizia, ma è paradossalmente messo in crisi dalla produzione su larga scala di droghe sintetiche. Il mercato delle droghe è l’unico, tra i più importanti monopoli illegali, in cui lo Stato ha rinunciato ad entrare, limitandosi ad una, purtroppo, inefficace azione repressiva, ingaggiando una battaglia lunga decenni e senza mai una svolta significativa. A prescindere da ogni posizione di principio è evidente che l’irruzione, seria, meditata, prudente e ponderata, dello Stato (o degli Stati) nella determinazione del prezzo di cessione delle droghe potrebbe far saltare le regole del gioco e far bruscamente regredire le organizzazioni dei narcos e le loro ramificazioni al dettaglio. La distribuzione controllata di alcuni tipi di stupefacente avrebbe il risultato di deprimere il contatto, talvolta quotidiano, di tanti giovani assuntori con malviventi della peggiore specie e di porre un freno alla “cifra oscura” dei drug oriented crimes (a patto che venissero conteggiati, cosa invero del tutto semplice).

Una partita delicata, sia chiaro, e dagli esiti incerti, che dovrebbe essere accompagnata da politiche di sostegno altrettanto serie e durature. Sempre meglio, forse, di una logorante guerra, in cui il nemico da decenni non arretra di un millimetro.

 

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