Lo scorso aprile Ivanka Trump ha incontrato Cecile Richards, presidente di Planned Parenthood, e le ha fatto una proposta. Dividiamo Planned Parenthood in due, le ha detto. Una parte più grande che si occuperà della salute delle donne e una più piccola – e, verrebbe da aggiungere, destinata a sparire – di interruzione volontaria della gravidanza (Ivanka Trump Has the President’s Ear. Here’s Her Agenda, «The New York Times», 2.5.2017).

La Casa Bianca ha cercato di presentare questo suggerimento come di buon senso, mentre la separazione tra diritti riproduttivi e aborto volontario sembra ricalcare e rinforzare lo stigma che pesa su quest’ultimo. Immaginare un luogo destinato esclusivamente alle interruzioni di gravidanza non fa che isolare una delle possibili scelte da tutte le altre, contribuendo a rendere l’aborto sempre più e solo un problema morale, piuttosto che un servizio medico. In altre parole, l’aborto volontario non è forse parte della salute delle donne? Non dovrebbe essere considerato come una delle possibilità e non come una macchia indelebile sulle nostre coscienze?

Planned Parenthood ha giudicato la divisione insensata e un sintomo di profonda incomprensione da parte della first daughter. La salute riproduttiva non può che comprendere anche l’aborto volontario che, ricordiamo, quando eseguito in condizioni non sicure causa ancora migliaia di morti e gravi danni alla salute. Le donne che chiedono di interrompere la gravidanza non dovrebbero essere relegate in ghetti vergognosi e la loro scelta non dovrebbe essere resa più difficile delle altre. Ma la proposta diventa perfettamente comprensibile se inserita in un piano che mira a eliminare l’aborto o a renderlo ancora più difficoltoso.

In questa storia ci sono molti elementi che ci sono familiari, sebbene il nostro sistema sanitario sia diverso da quello statunitense. Il servizio sanitario nazionale italiano garantisce l’accesso all’assistenza sanitaria, aborto compreso. Tuttavia l’aria che tira intorno all’aborto è molto simile per altri aspetti: la considerazione dell’aborto come quasi solo un problema etico, e non più medico, appartenente al dominio delle scelte riproduttive; la difficoltà di garantire il servizio nelle condizioni migliori possibili e senza lunghe attese o ricerche faticose di un operatore disponibile; lo stigma.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 4/17, pp. 556-563, è acquistabile qui]