Sono trascorsi oltre trent’anni da quando il prefetto Emanuele De Francesco, chiamato al posto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa alla guida dell’allora Alto commissariato antimafia, commise l’ingenuità di rispondere alla domanda di un cronista su quando poteva realisticamente attendersi la sconfitta di Cosa nostra. «Nel 2000», disse con onestà. Sembrava un tempo enorme, in quella stagione di eccidi senza fine (1982). La previsione gli costò il posto. Alla stessa domanda qualche anno dopo, con maggiore accortezza, Giovanni Falcone diede una risposta rimasta leggendaria: «La mafia, come tutte le cose umane, ha un inizio e avrà una fine». Da allora in poi nessuno si è azzardato a ipotizzare date o scadenze. La metafora di Falcone è stato lo schermo dietro cui trovare comodo riparo. Finirà. Quando non è dato saperlo. Visto che è difficile dare risposte a un quesito che pure sarebbe decisivo rispetto a quanti continuamente invocano leggi, inasprimenti di pena, mezzi e sostegno mediatico, appare più facile tentare una provocazione. Può darsi che le mafie abbiano, in effetti, oltrepassato lo zenith del loro potere, l’apogeo della loro forza, e abbiano incontrato un nemico tanto inaspettato quanto temibile: la corruzione.

Sono ormai frequenti e autorevoli gli interventi e le analisi che individuano nella corruzione una nuova metodologia dell’influenza mafiosa. I boss, si dice, sempre più spesso ricorrono alla corruzione per conseguire i propri scopi illeciti. Meno violenza, più mazzette, insomma. Un modo abbastanza semplice, in verità, per tenere cose tra loro molto diverse e, per certi aspetti, totalmente inconciliabili.

In primo luogo è vero che le mafie stanno vedendo drasticamente contrarsi il patrimonio sociale che avevano accumulato in decenni. Politici, imprenditori, uomini delle istituzioni sono sempre più accorti e attenti alle interlocuzioni con i boss. Certo gli episodi non mancano, ma nulla di comparabile a quanto accadeva sino a qualche anno fa. Gli inasprimenti di pena, i meccanismi dilatati della prevenzione antimafia, una giurisprudenza molto severa in materia di scioglimento dei consigli comunali e delle Asl inducono il ceto dirigente del Paese (e non solo al Sud) a un’estrema cautela nel rapportarsi finanche con soggetti provenienti dalle famose regioni a rischio. Non sono poche le inchieste in cui politici e imprenditori sono stati condannati per associazione mafiosa, e a nulla è valsa la difesa dell’avere agito «senza sapere», ossia senza conoscere il peso criminale degli affiliati con cui sono stati sorpresi in contatto. Questa situazione (certo positiva) sta erodendo la cospicua rete di contatti e relazioni dei boss. È sempre meno facile fare e ricevere favori in un contesto di così grande allarme e (finalmente) di preoccupazione. Senza questo cospicuo patrimonio sociale le mafie contano davvero poco, per cui sono anche loro costrette a corrompere il potere, a mettere mano al portafogli laddove era stato sempre più facile cedere all’inclinazione di mettere mano alla lupara. È vero che sono in aumento le intimidazioni verso amministratori locali, ma nessuno (in verità) dice che si tratti, sempre e comunque, di amministratori onesti. Spesso richieste di tangenti, ostruzionismi e favoritismi spingono gente esasperata a gesti esasperati. Come al solito occorrerebbe mettere da parte la propaganda e svolgere accurate indagini, almeno fino a quando le mafie (come l’Isis) non prenderanno a rivendicare gli attentati. È rimasta negli annali la risposta data da un giornalista ai dubbi di un inquirente su un articolo di stampa che ipotizzava riunioni e infiltrazioni di cui le forze di polizia non sapevano assolutamente nulla: «Finché la mafia non avrà un ufficio stampa, come fa a smentire?».

In secondo luogo, molta «domanda di mafia» (per usare la felice locuzione di Federico Varese) si indirizzava verso le organizzazioni mafiose, intese come entità capaci di realizzare importanti mediazioni con i poteri politici, economici o istituzionali. I boss erano (e, in parte, restano) il punto di riferimento di intere comunità che a loro si rivolgevano per cercare la soddisfazione illecita dei propri interessi o addirittura dei propri bisogni (un’assunzione, un lavoro, una piccola fornitura ecc.). In un contesto di corruzione diffusa è evidente che questa mediazione si logora ed entra in fibrillazione. Per quale ragione – si chiedono i protagonisti della domanda di prestazioni illecite – ci si deve rivolgere ai picciotti locali se il «favore» può essere semplicemente comperato al bazar della corruzione? Inutile rischiare indagini e processi o finanche l’arresto e restare a vita «debitori» del mammasantissima. Meglio procacciarsi del denaro e pagare il funzionario o il politico corrotto. Molto meno rischiosa (Davigo e Cantone docent) la corruzione del pericolo di finire nelle maglie strette di un’inchiesta antimafia. In definitiva, e qui si concentra la provocazione, una mafia bianca, composta di funzionari/politici/imprenditori stabilmente legati da catene di favori e di scambi corruttivi, minaccia finanche l’esistenza delle mafie o, quanto meno, ne mette in pericolo gli ambiziosi progetti di espansione e rafforzamento. Come tutte le cose umane.