Come Helmut Kohl, Simone Veil fa parte di quella classe politica europea che ha preso il testimone dai padri e dalle madri dell’idea di un’’Europa unita, democratica e solidale per farla vivere attraverso le istituzioni che erano state concepite alla fine della seconda guerra mondiale. Istituzioni che bisognava fare evolvere, per evitare il rischio che, con la loro fine, finisse anche la speranza di una Comunità fondata sulla pace e sui diritti.

Come sappiamo, l’uno e l’altra appartengono alla categoria dei padri e delle madri dell’idea d’Europa, quelli che sono nati fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX e che hanno così potuto assistere agli orrori militari della Prima guerra mondiale ma che nulla hanno potuto fare per evitare che le cause del primo conflitto planetario deflagrassero in un secondo e ancora più terribile conflitto.

A questa categoria appartengono uomini di Stato come Robert Schuman, Konrad Adenauer, Paul Henry Spaak, Alcide De Gasperi, grand commis come Jean Monnet, ma anche uomini e donne di pensiero e d’azione che hanno gettato le basi ideali di movimenti d’opinione europeisti e federalisti senza cui le istituzioni concepite dagli statisti non avrebbero potuto evolvere e sopravvivere: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni in Italia, Albert Camus in Francia, Sophie Scholl e il gruppo della Rosa Bianca in Germania e poi i déracinés come Ursula Hirschmann e Alexandre Marc, Georges Goriely e Denis de Rougemont. A questa categoria di pensatori déracinés varrebbe forse la pena di iscrivere anche Hannah Arendt per la forza della sua teoria politica.

Simone Veil appartiene dunque a quella classe di militanti della buona causa europea che hanno vissuto (e per Simone Veil drammaticamente subito) da adolescenti gli orrori della Seconda guerra mondiale e che ne sono usciti con la convinzione che il loro impegno doveva essere fondato su due semplici parole: «Mai più!».

La vita e le idee di Simone Veil sono state ampliamente riassunte e commentate in questi giorni dopo la sua scomparsa. Tutti hanno ricordato come Simone Veil sia stata la prima presidente del Parlamento europeo eletto a suffragio universale e diretto nel luglio 1979, ma spesso si è fermato qui il fotogramma della sua storia di europea.

Simone Veil entra nel Parlamento europeo come capolista del movimento «Unione per la democrazia francese», creato nel 1974 da Valéry Giscard d’Estaing, giovane presidente della Repubblica francese. La collocazione naturale del 25 deputati dell’Udf è quella del Gruppo liberale, quinto nell’emiciclo di Strasburgo e Lussemburgo dopo i socialisti, i popolari, i conservatori (soprattutto britannici), i comunisti e apparentati, e prima dei gollisti.

Secondo la logica degli schemi nazionali di contrapposizione fra centrosinistra e centrodestra, i gruppi politici si mossero alla ricerca di due candidati alternativi, sapendo che nessun candidato avrebbe potuto essere eletto senza un accordo di coalizione. Mentre i socialisti scelsero Mario Zagari pur sapendo che sarebbe stata una candidatura di bandiera, il centrodestra si era inizialmente orientato sul nome del lussemburghese Gaston Thorn per l’opposizione dei popolari al nome di Simone Veil, legata alla legge sull’aborto, e per l’opposizione dei tedeschi a una candidatura francese. Nel segreto dell’urna liberale prevalse invece Veil, che fu poi eletta ufficialmente dall’assemblea con i voti liberali, popolari, conservatori e parte dei gollisti: dalla coalizione di centrodestra, cioè, contrapposta alla coalizione di sinistra (socialcomunista). È molto probabile che alcuni franchi tiratori popolari siano stati compensati dal voto quasi compatto delle (poche) donne dell’assemblea e di alcuni socialdemocratici tedeschi fedeli alla amicizia fra Giscard e Schmidt, anche se non corrisponde alla realtà l’affermazione di Giscard secondo cui l’elezione di Simone Veil fu il frutto di un accordo fra Udf e Spd.

È significativo che nel suo discorso di insediamento Simone Veil metta l’accento sulle tre questioni di principale contrasto con i governi nel Consiglio: le risorse proprie (e cioè le imposte europee), la partecipazione del Parlamento europeo alla attività legislativa e la riforma del bilancio superando nei fatti l’artificiosa contrapposizione fra destra e sinistra.

Su questo contrasto fra la visione comunitaria e la logica intergovernativa Simone Veil ha tentato – invano – di gettare le basi di un rassemblement europeista in Francia per vincere le reticenze ideologiche della sinistra socialista e le ostilità della destra gollista, ma si è poi dovuta piegare alla logica del clivage destra-sinistra candidandosi nel 1984 alla testa di una lista Veil (Udf)-Chirac (Rpr) in funzione anti-mitterrandiana.

Il primo anno della prima legislatura europea si chiude con l’atto di ribellione del Parlamento contro il Consiglio: l’assemblea respinge a maggioranza il bilancio deciso dai governi per il 1980 e, nonostante le pressioni dei governi francese e tedesco, Simone Veil firma a metà dicembre la decisione che lascia le comunità senza un inaccettabile bilancio fino al 30 maggio 1980.

Quel che è avvenuto dopo la rivolta del Parlamento europeo è storia nota agli europeisti perché i governi – forti dei poteri loro assegnati dai trattati – hanno imposto un bilancio peggiore di quello respinto dall’assemblea aprendo la strada all’iniziativa (nota come «il club del coccodrillo») che – su impulso di Alltiero Spinelli – ha portato l’assemblea a votare il 14 febbraio 1984 il «trattato che istituisce l’Unione europea».

Durante il suo mandato di presidente – interrotto a metà legislatura nonostante la campagna di chi avrebbe voluto prolungarle il mandato fino al 1984 – Simone Veil ha difeso con coerenza le prerogative del Parlamento europeo eletto, sostenendo i primi passi dell’avventura spinelliana del progetto di Trattato.

Vale la pena di rileggere un ritratto scritto da Altiero Spinelli il 24 ottobre 1979 sul suo diario (1976-1986, Il Mulino, 1992): «Durante il pranzo osservo la presidente: è una donna tesa, incapace di un gesto di buon umore o di ironia. Non sa quasi sorridere. Questo atteggiamento assertivo ma in fondo consapevole di aver impegnato tutto se stesso senza più riserve nell’asserzione, e perciò impegnato a non distrarsi in alcun modo l’ho incontrato in alcuni uomini ma più spesso in donne politiche. Anche Ursula era un po’ così quando faceva politica. Credo che ciò sia dovuto al senso che una donna così impegnata ha di essere su un terreno ancora di fatto ostile. Sente ghignare intorno a sé i maschi, pronti a beffarsi di lei se non è in qualche momento all’altezza della situazione. Mi piace questa volontà concentrata di coraggio».