BS: Partirei da una domanda semplice, almeno in apparenza: a più di quindici anni da un suo libro intitolato «L’arte di curare la città», come stanno le nostre città?

PLC: Faccio una piccola premessa, prima di risponderle. Per capire come stanno le nostre città dovremmo infatti cercare di vedere quali sono le dinamiche economiche di piccolo cabotaggio che oggi ne caratterizzano il cuore storico.

Dov’è la rendita maggiore? Ciò che oggi rende di più a un privato che abbia a disposizione un appartamento nei pressi del centro di una città italiana è affittare la propria casa, anche «a pezzi», per farne un bed and breakfast e andare a vivere di rendita fuori, in periferia. Mentre per una azienda o una fondazione risulta conveniente (per giunta dà visibilità) l’organizzazione di una determinata mostra spettacolare, magari dedicata a un singolo dipinto o poco più, ma in realtà culturalmente quasi del tutto inutile. Il turismo consente una ricerca culturale o non è invece oggi più che altro un elemento di mercificazione? L’evento sponsorizzato e sostenuto anche dai grandi giornali è promozione culturale e interviene a favore della crescita di una comunità o non lo è invece una non episodica promozione culturale del patrimonio stabile che spinga a far conoscere le mostre permanenti, le pinacoteche, le accademie, i monumenti e non gli eventi? Nelle scelte dei grandi investitori, purtroppo, oggi si parte sempre da che cosa conviene economicamente, non da che cosa è meglio per implementare una cultura diffusa. Dunque, per provare a rispondere alla sua domanda, mi chiederei come sta la società oggi rispetto a quindici o vent’anni fa, piuttosto. Non c’era ancora la crisi economica determinata anche dallo sviluppo edilizio che ha generato una quantità abnorme di alloggi invenduti (oltre a quelli esistenti non occupati) i quali a loro volta hanno determinato lo stress bancario dei mutui inesigibili. Per tentare di risolvere il problema urbano occorre capire la società che si sta formando fra disoccupazione e sprechi.

BS: Lei ha più volte sostenuto la morte della città storica.

PLC: Sì, la città storica è diventata un popoloso deserto. Viene sempre meno studiata e nominata, si preferisce parlare di «centro», un termine vecchio e sbagliato. Le leggi aggiornate o rifatte (fa eccezione la Toscana) la ignorano ed essa non viene più perimetrata in molti dei nuovi piani. Sempre meno abitata, è l’unica parte dell’aggregato urbano frequentata, bistrattata, storpiata, usata da un turismo che si vuole aumentare. L’esplosione dei mini market – estensione in forme minori e apparentemente più amichevoli e umane delle catene della grande
distribuzione organizzata – cancellano le botteghe. Gli artigiani sono sempre più rari e le boutique sopravvivono con il turnover e lo scambio d’investimenti spesso poco trasparenti. Pizzerie e kebaberie, paninerie e salumerie e formaggiai si adeguano ai ristoranti e alle trattorie (con o senza «dehor») che invadono portici,
strade e piazze. È la moda. O, meglio, è il turismo di rapina (come amava ripetere Antonio Cederna) che, come dicevo, impone eventi, mostre effimere e movida. Tutto per calamitare gente e allontanare chi ci abita ancora.

 

[L'intervista completa, pubblicata sul "Mulino" n. 3/17, pp. 426-436, è acquistabile qui]