Lo scorso 29 maggio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è recato in visita in Emilia nelle zone colpite dal terremoto del 2012, nel quinto anniversario del catastrofico evento. Ad accoglierlo, a Mirandola, una ragazza di quindici anni studentessa dell’Istituto Galilei, Mbayeb Bousso. La giovane vestiva un bell’abito tricolore con un lungo strascico, un capo confezionato da lei stessa assieme ai suoi compagni di scuola dell’indirizzo moda. L’immagine, circolata ampiamente sui media e sui social network, ha suscitato molte reazioni, comprese le immancabili volgarità razziste della destra estrema e xenofoba italiana.

È appena il caso di aggiungere che gli insulti all’indirizzo della giovane studentessa sono stati «arricchiti» da altrettante contumelie legate al genere. Donna e nera, con la bandiera addosso: come il rosso per i tori. È quasi superfluo sottolineare quanto quel che è accaduto ci interroghi sulla necessità da un lato di ripensare le regole del confronto democratico di fronte al dilemma della tolleranza (se tollero gli intolleranti, la tolleranza soccomberà), dall’altro di ripensare la cittadinanza e chiudere l’estenuante dibattito sullo ius soli. Un dibattito che si rinfocola tutte le volte che l’Europa subisce un attacco terroristico, dimostrando così di nutrirsi di un’inspiegabile sovrapposizione tra il tema dell’immigrazione e quello del terrorismo.

Ma questo a parte, è forte il disagio provocato dalle immagini di Mirandola in chi voglia esercitare qualche esercizio di pensiero critico per analizzare quelle immagini e il loro significato simbolico.

La fotografia della studentessa di Mirandola vestita col tricolore e in attesa di accogliere Mattarella ha suscitato sentimenti contrastanti anche in chi scrive. Non che in linea di principio la cosa non sia sembrata bella, a segnalare che le identità sono fluide e che, come insegna la migliore antropologia, sono processi negoziali in atto, dotate di una struttura porosa. La stessa identità europea è il prodotto di quella porosità, sin dall’origine del nome: come ha ricordato Alessandro Barbero, l’aggettivo europenses compare per la prima volta in una cronaca mozarabica (mozarabo è il cristiano arabizzato che viveva nei domini arabi d’Europa) del 754 scritta in latino nella Spagna araba. Se l’Europa si costruisce sulla sua «separatezza», non è ambiguamente feconda, al contrario, questa origine del termine? Occorre dunque alzare la guardia contro il delirio della purezza, poiché i frutti puri impazziscono.

Ma le immagini che accompagnano il percorso di apertura della società italiana all’altro possono contenere elementi per una riflessione critica che le decostruisca mettendone in risalto le ambiguità, poiché anche nella retorica, che talvolta è un utile strumento per condivisibili battaglie, si possono annidare paradossali rovesciamenti per eterogenesi dei fini. È, mi pare, il caso della studentessa di Mirandola. Il corpo nero di Mbayeb viene esibito come simbolo di una normalità assente e di un’integrazione solo auspicata, come un trompe-l'œil rispetto al razzismo non si limita a serpeggiare ma, come abbiamo visto, va a testa alta. E fin qui la salutare retorica, a voler affermare, performativamente, che l’Italia è anche Mbayeb. Mi chiedo però quale sia l’effetto di quella immagine per i media e per i social. Mi chiedo se la bellezza fisica di quella fanciulla, la pelle nerissima, le spalle tornite, la vita stretta, non siano (anche inconsapevolmente) un arianesimo rovesciato, un'esaltazione dell'altro nella sua esotica perfezione corporea.

Sta, la ragazza, come una Nuba scultorea, come in un'immagine di Leni Riefenstahl. Nel 1973 la cineasta tedesca cara al Reich pubblicò un magnifico libro di fotografie sulla tribù sudanese dei Nuba. Uno dei motivi fondamentali per la scelta di quella e non di altre tribù, come sostenuto anche da Susan Sontag sulla «New York Review of Books», era la loro bellezza. Senza voler stirare oltre questa suggestione, la fotografia di Mirandola mi ha suggerito la domanda: l’integrazione che passa attraverso la purezza scultorea di un corpo levigato è quello che davvero vogliamo? Essa non denuncia un approccio estetico alla diversità che postula che la bellezza fisica renda l’altro più accettabile? Se questo è vero in generale, è ancora più vero per l’altro «esotico», che in un processo di paradossale orientalizzazione viene esaltato nella sua avvenenza fisica che riproduce immagini sognanti di luoghi lontani. Se l’altro è bello, la sua bellezza in qualche modo lo oggettivizza, lo rende non già più integrato, ma più esotico, dunque più distante. Naturalmente, la bellezza non è una colpa e Mbayeb non porta nessuna responsabilità: sto ragionando del successo di simili figure nell’immaginario collettivo o in chi le «usa».

Bellissimo era il Sidney Poitier di Indovina chi viene a cena o della Calda notte dell’ispettore Tibbs, film anti-razzisti che tuttavia per veicolare il messaggio dell’integrazione usavano il viso e il corpo perfetto di un nero dalle maniere gentili, come se la bellezza fornisse un supplemento all’argomento contro la xenofobia. Sono integrati gli scultorei ragazzi di colore che sorvegliano gli ingressi delle boutique di grandi firme della moda nelle grandi città? O quell’immagine riproduce lo stereotipo orientalista del guardiano che l’immaginario europeo colloca a custodia dell’harem?

Quando la cultura postcoloniale brasiliana cercò di costruire una propria identità, lo fece dapprima – nel corso dell’Ottocento – aderendo al modello romantico europeo del buon selvaggio, generoso e gentile, annullando la visione del Brasile come «bocca infernale» che tenta di inghiottire la civiltà europea inghiottendo i suoi rappresentanti nel Nuovo Mondo. Poi però, peraltro sotto l’influenza delle avanguardie artistiche europee, tornò al cannibale feroce e cattivo della tradizione: un ritorno dettato dall’ansia di recuperare e imporre un’identità antagonista, di scrollarsi di dosso secoli di sudditanza culturale. Perché questa digressione? Perché l’altro bello sembra rappresentare il non minaccioso, la sua bellezza costituendo icasticamente una rassicurazione per lo sguardo occidentale.

In fondo, la bellezza di Mbayeb rappresenta quel supplemento giustificatorio che favorisce l’integrazione, mentre l’altro selvaggio, feroce e brutto, minaccia l’immaginario europeo con fantasie di cannibalizzazione e deglutizione della sua cultura.