È improprio se non addirittura truffaldino identificare come «modello tedesco» la semplice adozione di un sistema proporzionale con lo sbarramento al 5%. Si lascia intendere che in questo modo si ottiene l’agognata stabilità e solidità del sistema politico nel suo insieme. Saremmo come la Germania, appunto, a prescindere dalle critiche che da molti mesi vengono sistematicamente rivolte a Berlino. 

Il modello elettorale tedesco è più complicato di quanto non si dica. Ogni elettore dispone di due voti: uno per il collegio uninominale (quindi nominativo), l’altro per il partito. Questo secondo voto determina, su base proporzionale con la soglia del 5 per cento, il numero di seggi spettanti a ciascun partito. In seguito a complessi meccanismi di aggiustamento, i consensi delle liste rimaste escluse possono andare a vantaggio dei partiti più grandi, mentre il numero dei deputati diventa variabile. È difficile far capire questi meccanismi nel nostro dibattito pubblico fissato esclusivamente sullo sbarramento del 5%, con discussioni astratte sulla equità di questa soglia rispetto ad una del 4 o del 3%. Senza contare la complicazione del premio di maggioranza, del tutto assente in Germania.

Insomma abbiamo una soluzione all’italiana contrabbandata per soluzione alla tedesca. I veri punti di solidità del sistema tedesco sono altri, primo fra tutti la «sfiducia costruttiva». Il Parlamento, cioè, non può sfiduciare un esecutivo se non è immediatamente disponibile un altro esecutivo in grado di godere della nuova fiducia. Assolutamente rilevante poi è la posizione, il ruolo e le competenze del cancelliere, che non sono omologhe a quelle del nostro presidente del Consiglio. Il cancelliere tedesco infatti nomina e revoca, di fatto, i singoli ministri, soprattutto decide in piena autonomia le linee guida della politica del suo governo. Decisivo poi è il ruolo del Bundesrat, il Consiglio federale, costituito dai rappresentanti dei Länder che hanno competenze legislative determinanti in settori attinenti le singole aree regionali (un autentico «Senato delle regioni», quale si sarebbe potuto istituire anche nel nostro sistema e ben diverso da quello prefigurato nella abortita riforma costituzionale).

Da non dimenticare infine è il ruolo della Corte costituzionale, garante attiva della democraticità costituzionale dei partiti, che ha portato nel passato all’esclusione dalla comunità politica del partito neo-nazista ( e originariamente anche del partito comunista). Oggi è sotto osservazione la formazione cosiddetta populista «Alternative für Deutschland», anche se non sono ancora emersi motivi per interventi limitativi della sua azione. Non approfondisco qui ulteriormente gli aspetti istituzionali/costituzionali. Mi preme invece sottolineare altri fattori a fronte agli argomenti e allo stile del nostro dibattito pubblico.

Il primo aspetto riguarda la Grande coalizione evocata da alcuni quale destino quasi obbligato del sistema tedesco. «Grande coalizione» è sinonimo di cooperazione sistematica tra i due grandi partiti storici democratico-cristiani (Cdu e Csu) e la socialdemocrazia (Spd). Con la memoria corta di oggi, si pensa ai due ultimi governi guidati dalla cancelliera Angela Merkel e già si specula sulla possibilità che se ne formi una analoga dopo le elezioni del settembre 2017. Ma le possibilità di coalizione sperimentate in passato e possibili in futuro sono anche altre.  

Non è il caso di ripercorrere qui la storia della Bundesrepublick. Non dimentichiamo che la prima Grande coalizione fu quella guidata da Kurt Georg Kiesinger dal 1966 al 1969, sostituita poi da una diversa coalizione tra socialdemocratici e liberali, guidati da Willy Brandt fino al 1974. Ad essa sono seguite altre esperienze, compresa quella verde-socialdemocratica di Schroeder e Josckha Fischer del 1998-2005, cui avrebbero fatto seguito i cancellierati della Merkel.  

In breve, se c’è una caratteristica del «sistema tedesco» è la realistica disponibilità a prevedere coalizioni di diversi colori - tutte basate sulla piena lealtà costituzionale e sul reciproco rispetto tra i partiti di governo e l’opposizione. Coalizioni basate sulla cultura del consenso democratico. Tutto il contrario del clima di reciproco sospetto e denigrazione che sembra caratterizzare da troppo tempo la politica italiana.

 

[Questo articolo è stato pubblicato su «La Stampa» il 29 maggio 2017]