Una ricorrenza destinata a passare inosservata – il diciottesimo anniversario di quel 17 febbraio 1992 che segnò l’avvio delle inchieste di “mani pulite” – ha coinciso casualmente con un inaspettato revival del tema della corruzione italiana. Qualche osservatore ha richiamato (o paventato) una nuova Tangentopoli, per descrivere il coinvolgimento in diverse inchieste, tra cui quella sugli appalti della Protezione civile, di numerosi politici e imprenditori di calibro nazionale, dirigenti, magistrati, procacciatori d’affari. L’analisi dell’evoluzione negli ultimi decenni delle statistiche giudiziarie e degli indici di percezione della corruzione mostra in effetti uno scenario di illegalità pubblica ancora capillare e sempre più spesso impunita, in un contesto di sfiducia generalizzata verso l’onestà dell’intera classe politica. La “nuova” corruzione presenta del resto un elemento di continuità rispetto a quella svelata con grande scandalo all’inizio degli anni novanta. È ancora una corruzione sistemica, nella quale le condotte, gli stili, le movenze degli attori sono incardinati entro copioni prefissati, seguono regole codificate, assecondano moduli ben familiari agli insider. Nelle reti della corruzione appaiono tuttora in vigore – proprio come negli anni di mani pulite – norme di comportamento che realizzano alcune funzioni cruciali: facilitano l’identificazione di partner affidabili; differenziano i ruoli nelle aggregazioni di corrotti e corruttori; tracciano i contorni di transazioni altrimenti nebulose; accrescono la redditività attesa dei processi decisionali, attenuano l’eventuale “disagio psichico” dell’illegalità; emarginano o castigano onesti e dissenzienti; socializzano i nuovi entrati alla “legge” della corruzione.
Per queste ragioni l'eredità di mani pulite appare oggi controversa. All'enfasi sull'azione catartica della magistratura, cui per breve tempo la società civile è sembrata delegare le proprie speranze di rinnovamento del sistema politico, ha fatto presto seguito la delusione per i risultati delle inchieste, falcidiate da prescrizioni sopravvenute per la vischiosità della macchina della giustizia.  Di qui lo strascico di un’escalation di tensioni tra potere politico e sistema giudiziario, il pessimismo ancor più radicato sull'onestà della classe dirigente, la delegittimazione di quasi tutte le istituzioni pubbliche, la rinnovata tolleranza nei confronti delle molte manifestazioni d’illegalità di massa. Questo processo si lega in una certa misura allo spegnersi dell’interesse degli elettori per i temi attinenti alla “questione morale”, sancito dai ripetuti successi elettorali del pluri-inquisito leader del centrodestra. Ma dipende anche dal ruolo ambiguo della classe politica, che anche nel caso delle mancate riforme anti-corruzione ha finito per abdicare – per incapacità o cattiva volontà – al proprio ruolo, delegando di fatto la risposta istituzionale alla sola repressione penale, ma nel contempo delegittimando l’azione dei magistrati e intralciandone l’attività con misure ritagliate sulle esigenze giudiziarie di Silvio Berlusconi, ma aventi ricadute pratiche e simboliche devastanti sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario.

[Su questi stessi temi, l'Autore ha in preparazione un articolo per il numero 2/2010 del "Mulino"]