Il 2017, con il suo pacchetto di elezioni chiave, si presenta come un anno difficilissimo per il nostro continente: l’Europa, stretta fra l’America di Trump e la Russia di Putin e assediata dai neopopulismi, sembra una regione prossima al collasso politico. Tuttavia in queste settimane sta emergendo un fenomeno politico inaspettato, che potremmo definire «nuova identità dell’euro», che potrebbe cambiare alcune carte in tavola.

Iniziamo dall’Olanda. I Paesi Bassi stanno per andare al voto, ormai è questione di ore. Il Partito per la libertà (Pvv) di Geert Wilders sembrava avere il vento in poppa: secondo i sondaggi, alla fine dello scorso anno sarebbe stato il primo partito politico olandese, con 35-36 seggi stimati sui 150 del Parlamento locale. Avrebbe poi avuto seri problemi, comunque, per formare una coalizione maggioritaria, poiché gli altri partiti erano ostili ai suoi programmi antieuropei, ma il dato era forte. Le ultime rilevazioni propongono invece un quadro del tutto nuovo, che ovviamente dovrà essere confermato (o smentito) dalle urne: liberali e Pvv sono pressoché alla pari. Quest’ultimo prenderebbe dai 20 ai 25 seggi, certamente in crescita rispetto ai 15 ottenuti alle precedenti consultazioni del 2012, ma meno delle previsioni; mentre il Partito liberale è stimato fra i 24 e i 25 seggi. La coalizione tradizionale di governo (liberali, democristiani, laburisti) prenderebbe a questo punto dai 45 ai 59 seggi. Ma, attenzione, le formazioni di sinistra eterodossa – i liberali di sinistra di Democratici 66 e la Sinistra verde – prenderebbero complessivamente dai 32 ai 38 seggi (rispetto ai 16 seggi attuali). Insomma, l’Olanda potrebbe riservare una sorpresa: i partiti europeisti, magari diversamente europeisti (come i liberali di sinistra e i Verdi di sinistra), potrebbero avere un bel pacchetto di voti, nonostante la rilevanza della questione immigrazione.

Anche la Germania potrebbe presentare dati interessanti: a inizio marzo, le intenzioni di voto per la Cdu di Angela Merkel sono al 32% e per la Spd al 31,2%, mentre Linke, Grünen, liberali e Alternative für Deutschland si attestano intorno al 10%. Solamente il 31 dicembre scorso i numeri erano diversi: la Cdu era più forte, al 35,3%, la Spd era al 21% e AfD era al 12,7%. La cura della «competizione» Merkel-Schulz sembra fare bene al sistema politico tedesco.

C’è poi la Francia: le elezioni presidenziali francesi sono il vero passaggio storico di quest’epoca di insicurezze e trasformazioni in Europa. Marine Le Pen era la frontrunner indiscussa. Nel novembre scorso era in testa nettamente, vicina al 30% al primo turno; per il secondo turno, il candidato della destra neogollista avrebbe potuto vincere, ma comunque sarebbe rimasto per il Front national un successo elettorale senza precedenti. Ora qualcosa sta cambiando anche Oltralpe. I sondaggi di queste ore sono da prendere con molta prudenza, ma un fatto rimane: l’ascesa impetuosa di Emmanuel Macron, candidato moderato e «liberale», ex ministro dell’Economia, fortemente orientato in senso europeista. Macron, oggi, arriverebbe al secondo turno e potrebbe battere qualsiasi altro candidato con circa il 60% di voti.

Dunque, tirando le fila: a inizio anno era ipotizzabile un’avanzata trionfale dei neopopulisti di destra in Olanda, Germania e Francia. Questi partiti, forse, non avrebbero conquistato il potere, ma sicuramente avrebbero condizionato pesantemente l’agenda politica nazionale ed europea. Oggi, all’inizio di marzo, possiamo affermare che, di fronte all’«ondata neopopulista», sembra essersi messa in moto una contro-mobilitazione neoeuropeista: liberali di destra e di sinistra e Verdi in Olanda, socialdemocratici in Germania, Macron, lo stesso Fillon o il socialista Hamon in Francia. Un caso, un accidente?

Non credo: una simile contro-mobilitazione europeista è avvenuta alla fine del 2016 anche in un piccolo Paese dell’Eurozona, l’Austria. Al primo turno delle elezioni presidenziali il candidato di Fpo, il locale partito nazionalista, Norbert Hofer, aveva preso il 35,1% dei voti e sembrava lanciato verso una sicura vittoria. La crisi dei partiti tradizionali, Spo (socialisti) e Ovp (popolar-conservatori), era troppo forte. Al secondo turno, però, ha vinto il verde e progressista Alexander Van Der Bellen, poi riconfermato il 4 dicembre – quando si sono nuovamente svolte le consultazioni, per via di alcune irregolarità nelle precedenti – con un risultato ancora più favorevole (53,8%). La vittoria di Hofer avrebbe potuto avere un effetto geopolitico simile all’attentato di Sarajevo del 1914: avrebbe potuto portare al trionfo dei nazional-conservatori in Germania, magari mettendo fine in modo imperioso all’era Merkel e, chissà, portando la Repubblica Federale a rinnegare l’euro. Così non è stato: l’Austria ha resistito.

Ieri Vienna, oggi L’Aia, Berlino, Parigi? È troppo presto per essere così ottimisti, dobbiamo almeno aspettare il 15 marzo. Il dato su cui possiamo riflettere già da ora, però, è che la contro-mobilitazione europeista avviene nei Paesi dell’Eurozona, nei Paesi cioè che hanno adottato l’euro. E ciò non è casuale: la moneta, come spiega efficacemente il grande economista Joseph Schumpeter, è il condensato delle speranze, delle paure, dei valori di un popolo; è la prerogativa sovrana per eccellenza. E in effetti l’unione monetaria è di per sé unione politica, magari con un processo di governo discutibile, ma pur sempre unione politica: la moneta è Politica con la P maiuscola.

Da questo punto di vista è particolarmente interessante il sondaggio Eurobarometer 86, relativo all’autunno del 2016. Secondo questa rilevazione, il 70% dei cittadini dei Paesi dell’Eurozona ha fiducia nell’euro (ma solamente il 50% è ottimista sul futuro dell’Ue): in Francia i favorevoli all’euro sono il 68%, in Germania l’81%. Il dato è chiaro: i cittadini dell’Eurozona si riconoscono nella moneta unica. La moneta unica è una formidabile forza politica, finora misconosciuta. Il vero tema che mette in pericolo l’Europa è la questione migratoria, mentre l’euro potrebbe essere la forza politica che salverà l’Unione, forse perché è percepita come una moneta rispettata a livello globale. Il «nazionalismo monetario» è una forza potente almeno quanto il nazionalismo politico. C’è motivo di essere un po’ meno pessimisti, quindi, ma a una condizione: l’euro è una forza politica potente, tuttavia per poter essere pienamente dispiegata è indispensabile che sia accompagnata da scelte condivise e da politiche europee di coordinamento di investimenti pubblici, ad esempio negli ambiti dell’immigrazione, della sicurezza, dell’istruzione, della ricerca, della difesa. L’euro da solo non può salvare l’Europa, ma costituisce le fondamenta su cui costruire gli altri piani della nostra casa comune. I neopopulismi di destra, forse, sono solo una crisi di crescita, una «crisi di sviluppo» politico della democrazia dell’Europa unita. Da ciò potremmo trarre alcune conseguenze anche riguardo al nostro Paese e alla sua gravissima crisi di sistema. Qual è il Paese dell’Eurozona dove la moneta unica non è popolare? L’Italia, con un limitato 52% a supporto. È poco, ma è pur sempre la maggioranza assoluta. Se ci fosse una proposta politica in grado di promuovere questa potenzialità, allora la crisi di sistema italiana potrebbe diventare governabile.