Si registra un certo consenso, fra i pochi che si occupano delle caratteristiche strutturali dell’economia italiana, riguardo al fatto che una parte significativa delle nostre debolezze dipenda dal numero molto limitato di grandi imprese, e in generale dalla modestia dei fenomeni di crescita dimensionale. Nessuno sogna di diventare come la Germania o gli Stati Uniti; il tema è rafforzare alcune delle caratteristiche del nostro capitalismo, come ad esempio ben argomentano nel loro recentissimo libro il direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, e Anna Giunta.

Perché è cambiato il mondo. La dimensione serve per radicarsi in mercati grandi, nuovi, lontani, difficili; per dar vita e controllare catene internazionali di fornitori; per utilizzare al meglio le grandi possibilità offerte dalle nuove tecnologie; per finanziare ricerca, innovazione, marketing, design, che sono armi competitive imprescindibili specie da quando non è più disponibile la svalutazione; perché la crescita delle imprese migliori aiuta la riallocazione di capitale e lavoro. Ma vi è di più: imprese medie e grandi servono al Paese. Favoriscono lo sviluppo delle piccole; assumono giovani laureati qualificati; diffondono buone pratiche manageriali; incubano al loro interno quadri e dirigenti che divengono nuovi imprenditori. Purtroppo, i cambiamenti dell’economia italiana sono di segno opposto: si assottiglia sempre più il plotone delle nostre più grandi imprese; e la crisi ha ridotto numericamente anche il gruppo delle medie. Nell’abbigliamento, Benetton fattura un miliardo, Zara e H&M nel complesso più di venti.

Ma come si può fare? Fra i pochissimi che provano a rispondere a questa domanda, è diffusa l’idea che anche per questo occorra confidare nelle «riforme strutturali». Straordinario termine con cui ormai si definisce tutto ciò che ci serve, sempre e comunque. Sia detto con il massimo rispetto verso chi esprime questa idea, termine comodo, con il quale si sottintende che non occorre più di tanto pensare e discutere, ma solo realizzare una complessiva ricetta che è lì, chiara; e che implica una fiducia assoluta nella circostanza che le mitiche «riforme» faranno rinascere, presto e bene, l’Italia. Ora non vi è dubbio che alcune delle «riforme strutturali» siano più che utili, anche per il tema che qui si discute: un miglior funzionamento della giustizia, una più vivace concorrenza nei servizi e nell’energia, un potenziamento dell’istruzione (strano però che allora non si stigmatizzino più di tanto le scelte politiche che stanno riducendo strutturalmente l’università italiana). Su altre, invece, vi sono grandi dubbi: una maggior libertà di licenziamento e una forte moderazione salariale, stando a non poca evidenza di ricerca, tendono a rallentare la crescita della produttività (e quindi le possibilità di crescita dimensionale) delle imprese. Se con un colpo di bacchetta magica qualcuno ce le regalasse tutte, nessuno, onestamente, può essere certo che ciò produrrebbe, compiutamente e in tempi ragionevoli, un rafforzamento delle nostre imprese.

Il punto è che se è importante occuparsi di quel che avviene fuori dal loro perimetro, è fondamentale anche intervenire su quel che avviene al loro interno. Come si è provato ad argomentare altrove, è tanto difficile quanto fondamentale favorire direttamente cambiamenti strutturali nel sistema delle imprese. Almeno così la si pensa in tutti gli altri Paesi: è di pochi giorni fa un Green Paper del governo inglese sul tema, volto a rilanciare la discussione sulla strategia di politica industriale, anche nell’ottica della Brexit. Da noi solo accennare al tema provoca l’orticaria ai nostri sapienti commentatori liberisti. Anche per la totale mancanza di discussione pubblica, quel che ogni tanto si fa è frutto di iniziative estemporanee: l’allora ministro Tremonti varò il Fondo strategico italiano; il suo successore Carlo Calenda ha promosso il Piano industria 4.0. Entrambe iniziative assai interessanti, ma poco centrali nella discussione di ieri e di oggi.

Il timore è che la giaculatoria sulle riforme strutturali e il silenzio sulle politiche industriali siano in realtà frutto di un profondo scetticismo sul futuro dell’Italia; sulle possibilità di cambiarla davvero; sull’importanza di attuare iniziative pubbliche forti e innovative; sull’utilità di investire energie politiche e risorse finanziarie per risultati di lungo termine.