Nessuna riflessione approfondita, per ora, sulla vicenda che è all’origine del congresso e della scissione, la sconfitta del referendum e la sentenza della Consulta. Una vicenda che segnerà una cesura importante nella storia del nostro Paese, che da più di vent’anni sembrava avviato verso un sistema maggioritario e a più forte governabilità. All’interno di questa vicenda maggiore si colloca quella minore della scissione: il congresso doveva servire a disinnescarla e pare invece che l’abbia accelerata. Ci sono scissioni che hanno una giustificazione storica profonda e questa non ce l’ha, come i migliori commentatori – D’Alimonte, Sabbatucci, Campi e altri – hanno subito sottolineato. Intanto, però, la macchina congressuale è partita e, per il bene del Paese ancor più che per quello del partito (…al bene del Pd un cittadino ha tutto il diritto a essere indifferente), credo sia utile che la macchina funzioni bene.

Che cosa vuol dire «funzionare bene»? Dal punto di vista della teoria democratica vuol dire che prima agli iscritti, nei circoli, e poi all’insieme di iscritti e simpatizzanti, nella cosiddetta primaria finale, vengano presentate mozioni congressuali da parte dei concorrenti alla segreteria il più possibile chiare, oneste ed esaurienti, in modo che il congresso funzioni anche come una buona palestra di educazione politica. Coloro che escono dal partito ovviamente non possono candidarsi e presentare mozioni, ma l’Assemblea nazionale ha mostrato con chiarezza che tra coloro che rimarranno ci sono autorevoli dirigenti che presenteranno tesi e argomenti assai simili a quelli che avrebbero presentato i fuoriusciti: in rappresentanza di questo orientamento politico, della vecchia «ditta», si è candidato Orlando. A riprova del fatto che le vere ragioni della scissione non stanno nell’impossibilità di promuovere nel partito una battaglia in favore di posizioni diverse da quella che – si presume – riuscirà prevalente. E il disagio del Sud troverà il suo campione sia in Emiliano, che si candiderà contro Renzi, sia in De Luca, che lo tallonerà d’appresso pur non presentandosi come sfidante. Insomma, potrebbero esserci tutte le premesse per un congresso serio.

Se tale sarà, se veramente il congresso farà fare un passo in avanti all’auto-consapevolezza del partito, dipende soprattutto dalla mozione del segretario uscente, che riassumerà il suo intervento del 10 marzo al Lingotto. Non credo che Renzi debba troppo preoccuparsi degli sfidanti: come si è visto in Assemblea, da parte loro non ci saranno sorprese. Oltre a rimproverare al segretario dimissionario l’azzardo che ha fatto correre al partito, essi riproporranno le ragioni di sofferenza dei ceti e delle aree cui il Pd fa riferimento, le critiche agli aspetti più liberali dell’esperienza renziana e delle misure di governo in cui si sono espressi, nonché una domanda di «di meglio e di più» che difficilmente terrà conto degli ostacoli interni e internazionali che a essa si frappongono.

Ma a Renzi spetta un compito arduo. Dopo la sconfitta traumatica del referendum – il cardine della sua strategia – per giustificare una ri-candidatura non basta l’autocritica di aver personalizzato troppo la sfida. Spetta il compito di giustificare perché l’abbia lanciata sulla base delle condizioni politiche allora esistenti, e l’abbia mantenuta anche quando si moltiplicavano i segni che essa sarebbe stata probabilmente persa. Il tutto nella consapevolezza che una sconfitta avrebbe radicalmente mutato il quadro politico, rendendo poi più difficile il raggiungimento di quegli obiettivi di riforma economica, sociale e istituzionale nei quali egli identificava la propria missione.

Due dovrebbero allora essere gli obiettivi di una «chiara, onesta ed esauriente» mozione dell’ex segretario, una mozione che induca iscritti e militanti a scommettere ancora su di lui nonostante la bruciante sconfitta del referendum. A scommettere con buoni argomenti, e non solo sulla base della constatazione rassegnata che, nonostante tutto e dati gli sfidanti, Renzi è ancora l’unico vero leader sul quale il partito può contare. (In altri contesti nazionali, cui lo stesso Renzi guarda con ammirazione, dopo una sconfitta di questa portata il segretario del partito si toglie di mezzo, mentre io credo che sia segno di responsabilità politica che egli riproponga la propria candidatura: chi non ne è convinto legga le ultime frasi della Politica come vocazione di Max Weber.)

Il primo obiettivo è una giustificazione convincente della strategia politica seguita dopo la sua elezione a segretario del partito, dall’«Enrico stai sereno» con quel che ne è seguito al patto del Nazareno, dall’elezione del presidente della Repubblica alla vittoria alle elezioni europee, dalle riforme fatte e tentate ai segnali di difficoltà successivi: una giustificazione, lo ripeto, che vada oltre l’autocritica dell’eccessiva personalizzazione della battaglia referendaria. (Anche se non avesse personalizzato, probabilmente sarebbe stato sconfitto lo stesso, come Berlusconi nel 2006.)

Il secondo obiettivo, e più importante, è quello di spiegare come si possa conservare una «vocazione maggioritaria» in un contesto proporzionale, in cui il governo, se pur sarà possibile, dovrà essere un governo di coalizione. La vocazione maggioritaria è un ingrediente necessario di un'identità riformista, e semplicemente esprime la disponibilità a governare anche in condizioni in cui non tutte le aspirazioni di un partito possono dar luogo a riforme ad esse coerenti, in cui sono necessari compromessi: insomma, è una forma mentis. Ovviamente è meglio governare da soli o con soci poco ingombranti, avrebbe detto il grande Catalano di Arbore e Boncompagni. Ma una vocazione maggioritaria è sostenibile anche in circostanze in cui il partito può trovarsi a governare in una coalizione in cui non è nettamente prevalente.

La frittata è stata fatta dal combinato disposto della sconfitta referendaria e della decisione della Consulta ed è ora futile recriminare: quali sono le riforme sulle quali il partito maggiormente si impegna a sostenere il governo in queste circostanze più difficili, sia che la legislatura si interrompa prima della sua scadenza costituzionale, sia che arrivi al suo termine? Quali sono quelle necessarie a tenerci agganciati all’Europa? Un’Europa ora spazzata da venti pre-elettorali, ma che potrebbe stabilizzarsi entro la fine dell’anno e prendere decisioni non certo favorevoli a un Paese politicamente instabile e incapace di crescere. Se Renzi darà risposte «chiare, oneste ed esaurienti» a queste domande contribuirà non poco all’educazione politica del suo popolo, a farne una comunità in cui il riformismo non è un termine ambiguo che indica le strategie più diverse, ma un valore chiaro e profondamente condiviso.