Un trentennio turbolento. Molti commentatori transalpini parlano dell’elezione presidenziale più incerta e caotica della storia della V Repubblica. Altri aggiungono che, sia dal punto di vista dei cosiddetti affaires, sia sul fronte dell’incertezza e dei pronostici disattesi, in realtà la storia della V è ricca di esempi: dal crollo di Chaban-Delmas nel 1974 al clamoroso ballottaggio Le Pen/Chirac del 2002 passando per il flop Giscard nel 1981, l’effimera candidatura di Raymond Barre del 1988 e il sorpasso «fratricida» di Chirac a Balladur nel 1995.

Il sistema politico-istituzionale francese sta vivendo un trentennio turbolento: le coabitazioni sono state tre (1986-1988, 1993-1995 e 1997-2002) e nel 2002 Jean-Marie Le Pen è clamorosamente arrivato al ballottaggio. Per non parlare dei due referendum sull’Europa, quello su Maastricht del 1992, con un «sì» risicato, e quello del maggio 2005, con il «no» che ha di fatto bloccato l’ultimo tentativo di rilancio europeo.

Se anche si vuole adottare uno sguardo di medio periodo e si considera l’ultimo decennio di vita politico-istituzionale, non ci si può esimere dal fare una riflessione su quello che appare come un «decennio buttato». Che cosa resta, infatti, del quadro politico uscito dal primo turno dell’elezione presidenziale del 2007? Con una partecipazione dell’83% (in crescita di 12 punti percentuali rispetto al 2002), i francesi avevano distribuito il 74% dei voti del primo turno a tre candidati rappresentanti delle tre principali forze di governo. Sarkozy si era piazzato primo con il 31% dei voti, seguito da Ségolène Royal al secondo posto con il 25% e il centrismo di tradizione democristiana di Bayrou aveva ottenuto un sorprendente 18%. La prima forza anti-sistema e non coalizzabile era rappresentata dal Fn di Jean-Marie Le Pen, fermo al 10,4% dei voti. Oltre 27 milioni di voti per i tre candidati «di governo», meno di 4 milioni al primo candidato anti-sistema. Senza sottostimare l’impatto avuto dalla drammatica scia di attentati apertasi nel marzo di 2012 con i fatti di Tolosa e poi drammaticamente acceleratasi tra Parigi, Nizza e la Normandia nel 2015-2016, appare difficile sottovalutare la portata politica della crisi dell’ultimo decennio.

In questo quadro a tinte piuttosto fosche, a circa due mesi e mezzo dal primo turno, tre dati meritano attenzione.

Prima di tutto l’ingresso prepotente di Marine Le Pen nella campagna. Non pochi, da tempo, ne sottolineavano la sostanziale apatia, quasi che la figlia del fondatore del Fn si limitasse ad «amministrare» i sondaggi favorevoli. Il rilancio sull’ipotesi di uscita dall’euro, il richiamo a Brexit e al modello Trump (da imitare) e infine l’occhio strizzato all’orgoglio gollista con il riferimento all’uscita dalla Nato (vedi decisione di de Gaulle del 1966) dovrebbero avere il duplice effetto di mobilitare la base militante e conquistare voti tra gli smarriti elettori della destra travolti dal caso Fillon. La scelta di insistere sulla dicotomica contrapposizione tra «patrioti» e «mondialisti» è un assist indiretto nei confronti di Emmanuel Macron e prefigura la creazione di una sorta di nuovo bipartitismo fondato proprio sull’asse sovranismo versus europeismo dominato dai due candidati anti-sistema.

L’altra faccia di questa medaglia è appunto rappresentata dal «fattore Macron» o «Macron-mania». Il suo meeting di apertura della campagna elettorale, tutto giocato sul desiderio di superare il clivage destra-sinistra per sostituirvi quello tra progressisti e conservatori, è una scommessa tanto azzardata quanto audace. La scelta di rilanciare e puntare sulle parole d’ordine europeismo, liberalismo e globalizzazione è utile per scrollarsi di dosso sia il candidato «ufficiale» socialista Hamon, sia per attrarre voti al centro e tra i già citati delusi della destra repubblicana. La scommessa rimane audace: basterà per ottenere quel 22-25% che, secondo i sondaggisti, dovrebbe garantire almeno il secondo posto e il conseguente ballottaggio (piuttosto agevole) proprio contro Marine Le Pen?

Vi è infine un terzo elemento di cui tenere conto: Fillon, almeno al momento, tiene duro e rilancia. Parla alla stampa per un’ora, si scusa in maniera non particolarmente convincente ma dice di voler andare avanti, perlomeno sino a che non arriverà una possibile (o probabile?) accusa ufficiale. Al di là della dimensione giudiziaria in sé e dell’esito dell’affaire, ad oggi non pronosticabili, è sul suo «tener duro» che occorre riflettere. Da un lato Fillon sfrutta la legittimazione ottenuta alla primaria e la gioca contro le richieste sempre più insistenti del partito affinché faccia un passo indietro. Dall’altro si fa sempre più chiara l’incapacità del partito stesso di centrodestra di elaborare una qualche forma credibile di «piano b».

Insomma, più che un decennio sembra trascorso mezzo secolo dalla primavera del 2007, quando il quadro politico transalpino pareva mostrare tutta la sua solidità presentando il terzetto Sarkozy-Royal-Bayrou. L’attuale «trio», peraltro incerto in uno dei suoi interpreti, appare molto meno rassicurante, per non parlare di quanto sia in realtà insidiato dai due outsiders Hamon e Mélenchon. E il loro profilarsi all’orizzonte non fa altro che aggiungere caos e incertezza.