L'ordine esecutivo con cui Trump ha emanato misure restrittive per l'immigrazione e l'ingresso dei rifugiati negli Stati Uniti ha scatenato una salva di rimostranze e proteste ferme e accalorate, in America e nel resto del mondo. Ma tutto sommato ci si potrebbe chiedere quanto di preoccupante ci sia veramente in questa faccenda. La stessa amministrazione ha provato a minimizzare le ricadute negative dei provvedimenti, già peraltro in parte disinnescati dalle decisioni di alcuni giudici e da una interpretazione accomodante che permette il reingresso nel Paese ai possessori di carta verde.

Il Dipartimento di Sicurezza nazionale ha sottolineato come ogni giorno negli Stati Uniti entrino più di 325.000 viaggiatori e solo poche decine abbiano avuto effettivamente qualche problema per via del bando. Si tratta comunque solo di misure temporanee, finché non saranno stabilite procedure di screening più sicure. E parlare di Muslim ban è fuori luogo, perché ad essere bandita è l'immigrazione da sette Paesi soltanto – la cui lista è stata recuperata da documenti dell'amministrazione Obama – mentre la maggior parte dei Paesi a maggioranza musulmana non è toccata dai provvedimenti. Perché non interpretare queste misure come un contentino post-elettorale, con il quale il presidente rassicura la pancia populista dei propri seguaci, senza in realtà fare realmente quello che aveva promesso, cioè un bando indiscriminato contro gli ingressi dei musulmani nel Paese?

Ci sono due ragioni per preoccuparsi delle implicazioni di questi provvedimenti al di là dei numeri delle persone coinvolte e dei costi ai quali vanno effettivamente incontro. La prima è banale, ma vale la pena esplicitarla. Le decisioni dei governi hanno effetti e significati che vanno al di là delle loro implicazioni pratiche immediate. I provvedimenti che stiamo discutendo arrivano dopo promesse e dichiarazioni elettorali palesemente islamofobiche e razziste; il loro significato è dato da questo contesto di discorso, anziché dalle precisazioni e i cavilli di Trump. Ma c'è di più. Il fatto che il bersaglio dei provvedimenti sia sfocato e arbitrario, che la scelta dei Paesi banditi sia stata fatta a partire da una lista di comodo e dunque a caso, e che l'intero impianto del provvedimento sia raffazzonato e confuso, è parte costitutiva del suo essere offensivo e discriminatorio nei confronti dei musulmani. Tutte le forme di razzismo, così come l'antisemitismo nella descrizione classica che ne ha fatto Sartre, si nutrono di una noncuranza intimidatoria che rifiuta il ragionamento e la precisione; questo è esattamente uno dei modi in cui si umilia l'umanità dei propri interlocutori. La cialtroneria con cui si appone la firma a una serie di misure così chiaramente inutili e non pensate non è solo un modo per manifestare la propria sostanziale indifferenza ai destini delle persone direttamente toccate, ma anche un'espressione di questo atteggiamento fondamentale di violenta noncuranza del razzismo.

Ma per preoccuparci dell'ordine esecutivo di Trump abbiamo anche un'altra ragione, che ci tocca più da vicino e rischia di passare in secondo piano. Fra le misure adottate da Trump c'è anche una drastica riduzione dei ricollocamenti dei rifugiati negli Stati Uniti, rispetto ai programmi prospettati sotto la presidenza Obama. L'Unhcr ha protestato evidenziando che questo improvviso cambio di passo lascia in una situazione difficile e precaria migliaia di persone che potevano sperare in una nuova vita negli Stati Uniti. Ma anche in questo caso si potrebbe provare a minimizzare. Tutto sommato, è vero che i numeri coinvolti sono esigui rispetto a quelli dei milioni di rifugiati ammassati nei Paesi ai confini della Siria. Accademici europei illustri come Paul Collier invitano a rivedere drasticamente le politiche di reinsediamento dei rifugiati dell'Unhcr, che non sono in grado di fornire una soluzione fattiva ai milioni di persone in fuga da persecuzioni e guerra. I ricollocamenti, secondo una linea di pensiero che si sta accreditando presso le intelligenze europee, sono inefficienti e potrebbero essere sostituiti da una gestione più razionale delle aree di concentrazione dei profughi, che potrebbero diventare unità economiche produttive in cui mettere a frutto il lavoro dei residenti. Queste considerazioni, anziché rassicurarci sulle ricadute delle decisioni di Trump, sono esattamente una delle ragioni per cui dovremmo preoccuparcene. Trump condivide una sostanziale continuità di intenti e di prospettiva con un sentire comune che ci ha assuefatti all'idea che i rifugiati siano un problema strutturale permanente che va gestito all'insegna del pragmatismo e dell'efficienza. Sui rifugiati, non possiamo essere sicuri che Trump stia semplicemente parlando a un suo speciale elettorato americano ottuso e razzista, perché se il linguaggio è diverso da quello dei discorsi a cui siamo abituati, i presupposti sono molto simili. Le proteste che sono in corso in queste ore negli aeroporti americani rischiano di concentrare la nostra attenzione solo sugli aspetti più eclatanti e coloriti del razzismo di Trump, e di farci sorvolare su una ragione più profonda di preoccupazione, che riguarda anche noi e lo sguardo con cui, anche da questa parte dell'Atlantico, stiamo imparando a considerare il mondo.