Esce nelle sale italiane in questi giorni Austerlitz, di Sergei Loznitsa, presentato fuori concorso alla 73º Mostra del Cinema di Venezia. Un film documentario, o piuttosto un saggio per immagini: il regista, fino al 1991 matematico dell’Istituto di Cibernetica di Kiev, sembra condurre una ricerca attraverso l’osservazione del proprio oggetto partendo da una domanda, formulando un’ipotesi e sviluppando un’analisi in poco più di trenta inquadrature in bianco e nero, per aumentare l’astrazione.

La prima immagine è una dichiarazione di distanza: la camera, fissa, filma un gruppo di persone oltre le fronde degli alberi. Il regista e la troupe si pongono in posizione di osservazione. Nelle successive inquadrature viene esplicitato l’oggetto della ricerca: una folla di persone in una giornata estiva. Hanno audioguide, zainetti e occhiali da sole, qualcuno si ferma a leggere cartelli che rimangono, però, fuori campo. Sono gruppi di turisti che camminano tutti nella stessa direzione.

Solo la quarta inquadratura inizia a introdurre il contesto spaziale dell’osservazione: un campo di concentramento nazista. La folla di turisti si dirige verso l’edificio di ingresso, passando attraverso un cancello che reca inscritto il famigerato motto Arbeit macht frei. Tuttavia, il luogo non è Auschwitz: la forma di quel cancello è diversa da quella del più famoso Konzentrations- e Vernichtungslager, campo di concentramento e di sterminio, non ha l’andamento lievemente (e grottescamente) curvo che l’ha resa un’icona inequivocabile. Siamo altrove. Esattamente dove viene svelato solo al 28° minuto dell’osservazione: a Sachsenhausen, Konzentrationslager aperto nel 1936 a Oranienburg, nei pressi di Berlino. Altre scene, quelle dei turisti in fila per vedere i forni, sono state girate a Dachau, il primo campo nazista, aperto nel marzo 1933 vicino a un’altra grande città, Monaco. Dachau e Sachsenhausen sono prototipi di campi, progettati per il concentramento e l’eliminazione, successivamente elaborati e impiantati in tutto il territorio europeo.

L’osservazione di Loznitsa mette a fuoco i movimenti dei turisti, una folla di diverse nazionalità: li guarda e, soprattutto, li ascolta. Lo sfondo sonoro è quello di un continuo calpestio e chiacchiericcio, punteggiato da smartphone che suonano o scattano fotografie. Di fronte agli oggetti più significativi, come il cancello o i forni, qualcuno si fa un selfie, da solo o con tutta la famiglia. Le guide radunano i gruppi e raccontano particolari della storia del campo, delle torture, delle esecuzioni. Qualcuno mangia un panino, qualcuno chiede dov’è il bagno. Le guide alternano descrizioni macabre a direttive logistiche. Molti fanno fotografie o filmati con la GoPro, ma sembrano non guardare veramente. Nello sguardo di tanti sembra esserci un pensiero: “Ma qui non c’è niente”, come si legge a volte nelle recensioni lasciate su TripAdvisor da inconsapevoli e quasi accidentali visitatori di luoghi come questi o come la casa di Anne Frank, tra i musei più visitati di Amsterdam, terzo dopo il Rijksmuseum e il museo Van Gogh.

Di fronte alla visione di Austerlitz, la maggior parte dei critici e del pubblico ha reagito indignandosi per quel comportamento così poco rispettoso del luogo e del suo pesante carico storico. Qualcuno, invece, ha percepito un eccessivo snobismo nei confronti di turisti che, certamente senza il necessario approfondimento, comunque hanno scelto di effettuare quella visita. Tuttavia, oggetto dell’osservazione di Loznitsa sembra essere non tanto il comportamento delle singole persone, quanto la modalità di visita a questi luoghi: cosa spinge le persone ad andare? Cosa cercano? Cosa si aspettano da quell’esperienza? E quale esperienza viene loro offerta? Visite veloci, inserite in tour organizzati che propongono sullo stesso piano una pinacoteca, un castello medioevale e un campo di concentramento, effettuate tra tempi serrati, percorsi rigidi, interpretazioni preconfezionate: esperienze che non possono essere altro che superficiali. Il campo di concentramento diventa come una qualsiasi altra meta di turismo (e consumo) culturale. Non porrei alcuna obiezione moralista, se non fosse che in parallelo la retorica più diffusa propone che questi viaggi si effettuino perché quei fatti “non accadano mai più”.

Nell’incontro seguito alla proiezione del film alla Cineteca di Bologna, Loznitsa ha aggiunto una riflessione personale: questi luoghi richiedono “un rituale”, mentre ora vengono date solo informazioni che non sono sufficienti per attivare i visitatori, sollecitati solo a guardare, ma senza poter vedere davvero. I forni, ad esempio, sono dei “buchi neri” in cui non c’è nulla, ma presso il campo di Dachau sono state messe delle luci all’interno per indurre e facilitare la visione dei visitatori. Ma la visione di che cosa? Qualcosa che non c’è e che non può essere visto, ma solo pensato.

L’indicazione di un’alternativa è probabilmente offerta dal titolo del film. Austerlitz è un villaggio della Moravia presso cui si combatté la famosa battaglia napoleonica, cui è dedicata la Gare d’Austerlitz di Parigi, ora stazione della metropolitana e un tempo stazione ferroviaria della città. Austerlitz è anche il titolo del romanzo di W.G. Sebald in cui si racconta la storia di Jacques Austerlitz, professore di architettura e appassionato raccoglitore delle storie dei luoghi (a partire dalla stazione di Anversa, il campo di Fort Breendonk, la stessa Gare d’Austerlitz), che però non conosce la propria origine. Solo trovandosi un giorno, per caso, nella vecchia sala d’attesa di una delle stazioni di Londra, improvvisamente ricorda di essere stato un bambino salvato da un Kindertransport, e inizia così una ricerca sul destino dei propri genitori, che lo porta a Theresienstadt-Terezín. Nel suo continuo viaggiare, Austerlitz attraversa i luoghi quotidiani, che sono anche – spesso – luoghi della memoria, perché ne portano una, o più di una, addosso. E concedendo tempo all’esperienza, e alla riflessione su di essa, ne trae qualcosa di personale, sottile, fondamentale.

 

Perfino adesso che sto cercando di ricordare, che ho ripreso in mano la pianta granchiforme di Breendonk e nelle didascalie leggo le parole Ex ufficio, Tipografia, Baracche, Sala Jacques Ochs, Cella d’isolamento, Obitorio, Reliquiario e Museo, l’oscurità non si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quante cose cadano incessantemente nell’oblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé incapaci di ricordo, non vengono udite, annotate o raccontate ad altri da nessuno.

W.G. Sebald, Austerlitz (Adelphi, 2002)