Mentre molti giornali europei commentano sarcastici l’avvio della presidenza Trump, soffermandosi spesso più sugli aspetti di colore che sulla sostanza, in Europa i leader populisti non perdono tempo e aprono il 2017, l’anno delle elezioni, chiamandosi a raccolta in Germania, ospiti di Frauke Petry e della sua Alternative für Deutschland. A Coblenza, il 21 gennaio, Marine Le Pen ha assicurato che questo sarà «l’anno del risveglio dei popoli dell’Europa continentale».

Ma dai partiti nazionalisti e populisti non arrivano solo slogan. Jörg Meuthen, esponente dei vertici della AfD, ad esempio, ha tracciato la sua ipotesi di uscita dallo stallo attuale dell’Eurozona e dell’Unione europea. La sua proposta è semplice, forte e apparentemente ponderata rispetto ad altre. Consiste nella divisione dell’Eurozona tra Nord e Sud, lasciando ancora indeterminato se ci saranno due monete comuni o monete nazionali. Si tratta di una proposta insidiosa, perché riporta ai dibattiti dei primi anni Novanta (Europa a due velocità, la costituzione di un «nucleo forte» europeo o Kern-Europa, presa in considerazione anche da personalità come Wolfgang Schäuble) – prima che maturasse la scelta dell’Europa di Maastricht attraverso un dibattito faticoso e ambiguo, coraggioso ma anche avventato più di quanto oggi la narrazione ufficiale non ci voglia far credere. Fu una scommessa che soltanto alla lunga, dopo la crisi dell’euro a partire dal 2008 e gli anni successivi, avrebbe rivelato una situazione in cui c’erano Stati vincenti (Germania, innanzitutto) e Stati perdenti.

Siamo così al dibattito attuale, tra chi è convinto (tedeschi in testa) che i trattati e le procedure messe a punto negli scorsi decenni siano ancora in grado di far uscire dalla brutta crisi che attanaglia molti Paesi europei, e chi invece è convinto che occorra introdurre correttivi e modifiche significativi prima che sia troppo tardi di fronte alla caduta verticale di fiducia dei cittadini.

Ma la classe politica presente a Strasburgo e a Bruxelles ha la capacità, il coraggio, la competenza per farlo? La classe politica tedesca si rende conto delle sue responsabilità specifiche? O sarà tentata dal Sonderweg, la ripresa cioè di una «via speciale» tedesca?

Ho l’impressione che di fronte a questi dilemmi l’Italia politica sia spaesata, impreparata, disarmata. Il breve (primo) incontro del 18 gennaio a Berlino tra il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni e la cancelliera Angela Merkel fotografa abbastanza bene la situazione. Il capo del governo italiano è apparso chiaro e netto nell’esporre le sue tesi critiche sull’Europa. Ha parlato di «una sorta di flessibilità a corrente alternata: molto rigida sui decimali dei bilanci e molto ampia sulle questioni fondamentali come la questione migratoria». La tesi dell’Europa a due velocità viene rideclinata polemicamente come «Europa a due rigidità, troppo rigida su alcune cose, troppo flessibile su altre». «Crediamo che la fase dell’austerità fine a se stessa sia tramontata e auspichiamo un confronto aperto e costruttivo sul tema».

Di fronte a queste affermazioni la cancelliera si è mostrata comprensiva, elusiva, attendista a un tempo. È «la Merkel» che conosciamo da tanti anni specialmente nei riguardi dell’Italia. L’Italia è la solita nazione guardata con sospettosa simpatia perché cronicamente inadempiente, ma senza diventare (ancora) un pericolo serio per l’Europa. Non a caso sull’incontro Gentiloni-Merkel non c’è stata alcuna reazione sulla grande stampa tedesca.

Delicata, fragile, politicamente instabile (ai massimi livelli politici) l’Italia è affannata nel reggere la gravità dei suoi problemi finanziari, economici e sociali interni. Encomiabile nell’accoglienza del flusso incontrollabile dei profughi e dei migranti, anche se inefficiente nella loro gestione, trova tutta la comprensione della cancelliera nella comune protesta contro la vergognosa incapacità o non volontà degli altri Stati europei a definire e attuare una equa distribuzione dei profughi sul continente. Ma per il resto l’Italia sembra aver poco da dire sulla «hard Brexit», sull’accordo con la Turchia, sulla guerra in Siria o sull’assestamento della influenza geopolitica della Russia di Putin, che ossessiona invece altri Paesi (baltici). In compenso è coinvolta nella crisi libica, trovandosi sostanzialmente isolata e guardata a vista da una gelosa Francia.

Nella lotta contro la sua mai risolta crisi economico-finanziaria interna e le sue conseguenze (disoccupazione, sistema bancario in difficoltà) il nostro Paese è esposto al giudizio severo di Bruxelles che denuncia regolarmente l’intollerabile debito pubblico italiano, lo sforamento del tetto del deficit consentito e avanza quindi la richiesta di una manovra correttiva aggiuntiva per evitare la procedura d’infrazione. Il governo reagisce spiegando sempre ogni volta le sue ragioni, in attesa di trovare un compromesso. La Germania della Merkel sta a guardare. Personalmente la cancelliera condivide con Gentiloni che «Italia e Germania sono tra i Paesi convinti della straordinaria importanza del futuro europeo» e lavoreranno insieme per «rilanciare la Ue pensando alle sue sfide». Ma sono parole troppo generiche. Le strade sono troppo divaricate. È evidente che le preoccupazioni, le urgenze, i rischi per la Germania e per l’Europa cui essa pensa, vengono da tutt’altra parte –  Trump, Theresa May, Putin, Cina e il terrore Isis. La geopolitica globale ha il sopravvento e l’egemonia limitata (euro-provinciale) tedesca è davanti a una prova imprevista.

 

[Questo intervento anticipa l’articolo di Gian Enrico Rusconi in uscita sul "Mulino" n. 1/2017]