«L’idea che ci possa essere una sinistra di sinistra, felice, unita e vincente, è come incontrare dopo tanti anni la fidanzata del liceo: prima che tu possa ragionare, qualcosa ti travolge di nuovo. Se sei solido e sereno abbastanza, dura il tempo di un abbraccio affettuoso, e poi ragioni; se no, fai pure delle cazzate imbarazzanti». L’ironia garbata di Luca Sofri è un’eccezione. Buona parte delle reazioni all’iniziativa politica per unire i progressisti, lanciata da Giuliano Pisapia e da altri esponenti della sinistra civica, ha il tono dell’invettiva. Condanne senza appello che hanno provocato la comprensibile indignazione di Michele Serra, intervenuto invece a difesa della ragionevolezza della proposta dell’ex sindaco di Milano. Per Serra, la «vocazione minoritaria» della «sinistra del no, no, no» è tra le cause che hanno prodotto l’ascesa di Matteo Renzi.

Chi tenta di spiegare – più o meno in tempo reale – le vicende della politica ha a che fare con «un gomitolo di concause» difficile da dipanare. Può darsi che il successo di Renzi si debba anche al massimalismo di una parte della sinistra, ma potrebbe anche essere vero il contrario. Non trovare nel segretario del Pd un interlocutore attento e disponibile a ragionare potrebbe aver spinto molte persone di sinistra, in principio niente affatto massimaliste, a prendere posizioni via via sempre più radicali. In origine per frustrazione, non per pregiudizio. Si sa che le delusioni tendono col tempo ad alimentare una diffidenza che può diventare difficile da superare. Lasciamo da parte le accuse reciproche e le recriminazioni su chi abbia causato cosa e proviamo invece a mettere insieme alcune considerazioni sul contesto in cui matura l’idea del «campo progressista».

Un primo dato di cui tener conto riguarda il Partito democratico. Dalle dichiarazioni di Pisapia si capisce che egli è convinto che Matteo Renzi, nel bene o nel male, sarà a lungo un protagonista della politica italiana. Questa convinzione lo porta presumibilmente a ipotizzare che la trasformazione nello stile e nei contenuti del Partito democratico è destinata a consolidarsi. Allo stato attuale non c’è un rivale credibile per Renzi in termini di popolarità, e neppure si è fatto avanti qualcuno che proponga una visione alternativa del contenitore e dei contenuti. Tale considerazione vale in particolare per la sinistra interna, Bersani e i suoi per intenderci. Un gruppo che si caratterizza soprattutto come custode di un’eredità tradizionale, che si riconduce all’ultima stagione del Pci, che appare priva di alcuna capacità di far presa su larghe porzioni dell’elettorato, anche di orientamento progressista, di questo Paese. Potrà dispiacere ad alcuni dei suoi fondatori, ma il Partito democratico è oggi una costellazione di gruppi, tenuta insieme da legami diversi, non necessariamente di cultura o sensibilità politica, che guarda soprattutto al centro. Un’alleanza in cui ex popolari ed ex democristiani convivono in relativa serenità con ex miglioristi del Pci, alcuni dei quali born again liberals e liberisti. Ci sono parlamentari del Pd che incontri regolarmente ai seminari dell’Istituto Bruno Leoni, che non metterebbero mai piede in una simile iniziativa promossa dal Centro per la Riforma dello Stato. Più che di «progetto» neocentrista, si dovrebbe forse parlare di «istinto», ma questo è un dettaglio. La sostanza di cui Pisapia e gli altri prendono atto è che il Partito democratico non è, e non sarà nel futuro prossimo, la casa di tutti i progressisti.

Non credo si possa negare che il Partito democratico di Renzi ambisca a presentarsi come un partito di progresso. Non foss’altro perché il famoso storytelling, di cui tanto si è discusso, è tutto orientato in questo senso: rottamare, cambiare, innovare, guardare al futuro. Tuttavia, le battaglie di progresso fatte dal Pd di Renzi non sono sufficienti per una parte della sinistra. Riconoscere i matrimoni omosessuali ridistribuisce una libertà civile diminuendone la diseguaglianza, ma non interviene su altri tipi di conflitto distributivo. Dall’altro lato, il Jobs Act potrebbe aver aumentato le opportunità di trovare un lavoro stabile per alcuni lavoratori subordinati, ma ha ristretto la libertà di scelta di tutti i lavoratori rispetto a quella dei datori di lavoro (per questo molti sostengono l’opportunità di un reddito di cittadinanza per riequilibrare questa perdita).

Questo ci porta al secondo dato. Fino a ora ho impiegato nel mio ragionamento le espressioni «progressisti» e «sinistra» come se fossero grosso modo equivalenti. In realtà le cose non stanno in questo modo. Senza farla troppo complicata, si deve riconoscere che, anche prima di quello di matrice socialista, c’era un progressismo liberale. Ciò che vale come progresso per il primo, può non avere lo stesso senso per il secondo e viceversa. Ci sono stati momenti storici, nel corso del Novecento, tendenzialmente quelli in cui l’economia andava bene, in cui i due progressismi si sono alleati facendo battaglie comuni. Ciò è avvenuto anche sotto la bandiera del socialismo, come nel Labour britannico degli anni Sessanta e poi dei Novanta. Oggi una grave crisi provoca una drammatica riduzione della quota di prodotto sociale da distribuire. L’espansione della libertà di alcuni entra in tensione con le pretese di beni sociali da parte di altri. Non è un conflitto tra libertà ed eguaglianza, se non a un livello superficiale. Si tratta di un conflitto distributivo perché anche le libertà sono beni sociali. In una situazione del genere, la convivenza nello stesso partito dei due tipi di progressismo diventa molto faticosa, specie se i rapporti di forze sono diseguali.

La scommessa di Pisapia è che una formazione della sinistra a fianco del Pd potrebbe riequilibrare i rapporti tra le due famiglie progressiste. Tenendo conto che l’equilibrio delle forze all’interno dei Democratici, e forse anche nella società nel suo complesso, è probabilmente a favore di quella di ascendenza liberale, piuttosto che di quella di ascendenza socialista. Tuttavia, l’evoluzione che sta avendo il sistema politico italiano potrebbe dare una mano agli eredi del socialismo. Poter contare su un alleato solido e affidabile a sinistra potrebbe essere preferibile per Renzi, piuttosto che appoggiarsi a gruppi di destra dall’identità indefinita, e proprio per questo tentati di trovare la propria ragion d’essere nel fare il contrappeso moderato alle iniziative controverse dei Democratici in materia di diritti civili. A questo punto, la scelta sarebbe tra un equilibrio spostato verso i conservatori, che potrebbe creargli problemi all’interno del partito, e uno verso sinistra.

Si tratta, come ho detto, di una scommessa, quindi comporta un rischio. C’è chi questo rischio non vuole correrlo, per conservare la propria purezza. Credo sia un atteggiamento sbagliato. Come direbbe Avishai Margalit, in politica ci sono compromessi virtuosi e compromessi corrotti. Quello proposto da Pisapia (ripreso tra gli altri dal sindaco di Bologna Virginio Merola) appartiene al primo genere.