Giovani italiani che non tornano. Vivo a Berlino da 3 anni e mezzo, con un compagno e due figli. Siamo arrivati qui per svolgere il mio tirocinio professionalizzante postlaurea e dopo un paio di mesi abbiamo deciso di restare a tempo indeterminato. 

Inizialmente è stato tutto molto entusiasmante, ci siamo confrontati con un modo di vivere molto più rilassato, una genitorialità più soddisfatta, una realtà culturale e artistica aperta, ricca, dinamica, abbiamo vissuto come una in lunga vacanza in un luogo freddo ma luminoso e con infinite possibilità.

Da subito sono stata colpita dalla calma placida e soddisfatta delle mamme, anche di quelle con due, tre o quattro figli ancora piccoli. Mamme superattrezzate con fasce e marsupi multicolor e passeggini supertecnici, con bambini nani appena dueenni che sfrecciano sulla Laufrad (biciclettina a due ruote senza rotelle che potenzia il senso motorio e dell'equilibrio). Madri e padri che non gridano (mai) non si arrabbiano (mai) non vanno in ansia (mai) se il bambino cade o se sfreccia a 20 metri davanti a loro in direzione incrocio stradale. Perché i bambini sfreccianti si fermano regolarmente mezzo metro dalla fine del marciapiede. Gliel’ha insegnato la maestra all’asilo.

Li ho osservati a lungo cercando di capire da dove venisse questa tranquillità, perché come madre e professionista del settore ho sentito l'impatto di questo «altro» modo genitoriale con forza e chiarezza.

Li ho osservati e ho scoperto che i piccoli nani sentono a metri e metri di distanza anche se li chiami con un tono di voce normale, e che quando ci sgoliamo è perché loro fanno finta di non sentire e noi ci caschiamo sempre. Ho osservato come i genitori nella costellazione neonato + fratellino/sorellina maggiore gestiscono attacchi di gelosia, semicalpestamenti indifferenti e slanci d'affetto della serie «fratellino mio ora ti soffoco di abbracci»: con molta serenità e oggettività, senza allarmismi inutili e intervenendo solo quando e quanto veramente necessario.

Ho scoperto che i bambini arrivano al limite, ma non lo passano quasi mai, perchè in realtà sono molto competenti e devono sentire che ci siamo ma che gli si da fiducia e li si vede per quello che sono. Maria Montessori docet. La nostra Maria, che qui è una star!

È grazie a lei che negli asili berlinesi ai bambini si dà la possibilità di dire quello che pensano, che li si guida a capire quello provano e quello che provocano negli altri e a comunicarlo correttamente. E che qui i bambini di diverse età giocano e crescono assieme in gruppo, condividendo quella dimensione di vita quotidiana un tempo presente nella famiglia allargata ormai sempre più nuclearizzata.

L'assenza di ansia e allarmismo è presente anche nel rapporto con la natura e con il mondo fuori dalle quattro mura. Le scelte «più estreme» sono quelle degli asili nel bosco, dove con qualsiasi tempo e temperatura i bambini stanno fuori per la maggior parte della giornata. E no, non si ammalano di polmonite, anzi… i pediatri nella maggior parte dei casi di bimbo raffreddato, influenzato e febbricitante vi mandano a prendere dell'aria fresca; con il bimbo, naturalmente. Negli asili «ordinari», i bambini vengono portati fuori quotidianamente un paio di volte al giorno per alcune ore con la neve, il sole, il freddo o la pioggia. E le maestre non impazziscono a vestirli e svestirli con stivali di gomma, pantaloni di gomma, giacca, cappello e guanti, perché dai 2-3 anni iniziano a vestirsi da soli, se si da loro il tempo per farlo (anche questo è un principio montessoriano). Una volta a settimana c'è la gita fino a un parco nei dintorni o a un museo. Ed è così che da subito i bambini scoprono che ci sono la strada, le auto, i tram, i semafori e delle regole semplici e basilari per muoversi in sicurezza nella giungla metropolitana.

In questo modo abbiamo vissuto i primi tempi, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, e abbiamo imparato moltissimo.

Poi ovviamente è subentrata la quotidianità e la necessità di trovare il modo di vivere, di integrarsi, di capire meglio il mondo in cui eravamo finiti, di raggiungere quelle mete che ci eravamo prefissati decidendo di far parte delle «nuove mobilità». Sono anche arrivate le delusioni e la consapevolezza di quello che di buono avevamo lasciato. È stato faticoso, a volte lo è stato terribilmente e dopo questi pochi anni abbiamo raggiunto tanti traguardi e siamo cresciuti personalmente e professionalmente come non sarebbe stato possibile se fossimo rimasti dov’eravamo.

Capita che venga voglia di tornare «a casa». Così questa estate, dopo un anno molto impegnativo, mi sono concessa il lusso di una lunga vacanza in Italia con i miei figli. Mi sono nutrita di sapori, odori, sorrisi, forme, parole e abbracci. E stavolta sono tornata indietro qui al nord con estrema fatica. E ho pensato davvero alla possibilità di tornare.

Poi è arrivato il Fertility Day. E mi sono riavuta da questo mancamento, da questo cedimento nostalgico e sentimentale. Perchè quando sei lontano e diventi nostalgico, dimentichi a volte il perché te ne sei andato.

Il Fertility Day e la sua promozione, degna di un compito di comunicazione grafica alle scuole superiore, hanno incarnato alcuni dei motivi per cui avevamo deciso di cambiare aria. Conosco il tema perché è parte del mio ambito di lavoro e ho trovato la campagna pericolosamente approssimativa se non fuorviante, sicuramente offensiva.

L’impressione è che il valore umano e professionale di noi giovani laureati e professionisti in fuga sia molto elevato e che superi spesso quello di esponenti della classe politica che governa in Italia. Così ce ne andiamo, perché questa situazione ci umilia e ci fa perdere la speranza.

Poi magari ci proviamo a tornare, e se non è il Fertility Day, è l’imbarazzante uscita o lo scandalo per corruzione del politico del mese che riecheggia oltralpe raggiungendo i media tedeschi. E se non è la politica, è il lavoro.

Ma giuro: noi ci pensiamo e ci proviamo a tornare, solo che a parità di ore di lavoro ci offrono la metà dello stipendio. E allora ci ripensiamo e restiamo un altro po’.

Che almeno qui, possiamo scegliere. Possiamo scegliere di cambiare lavoro se non condividiamo l’etica dell’azienda in cui lavoriamo, perché ancora possiamo permetterci di non scendere a certi compromessi. Possiamo scegliere anche di mandare i nostri figli in una scuola privata con un certo orientamento pedagogico se non siamo soddisfatti di cosa e come insegnano nella scuola, perché le rette si pagano in base al reddito e tutti hanno lo stesso diritto di accedere. Possiamo scegliere se lavorare come dipendenti o come liberi professionisti sulla base delle nostre esigenze di sicurezza o flessibilità e non su quelle dell’azienda che ti vorrebbe assumere ma non gli conviene fiscalmente.

E insomma… ti senti che vorresti tornare ma che non puoi, che cosa ci torni a fare?

Almeno qui hai dei diritti fondamentali minimi che lo Stato ti garantisce. Mentre in Italia, se non te li garantisce la famiglia, stai fresco.