Phyllis Schlafly – morta il 5 settembre scorso a St. Louis, all’età di 92 anni – è stata una figura chiave degli anni Settanta e dei movimenti delle donne negli Stati Uniti. Importante anche prima e dopo, se è per questo, ma è nei Settanta  che il suo diventa un nome familiare, eroina amata per alcune e odiata villain per altre.

Schlafly è stata l’arcinemica conservatrice, in effetti lo spauracchio demonizzato e la nemesi, delle femministe e più in generale del women’s movement sia progressista sia radicale. Come il women’s movement e meglio delle femministe radicali, è stata capace di organizzare un movimento femminile di massa – un movimento che ha demonizzato il femminismo e influenzato in profondità la storia del Paese, contribuendo alla svolta conservatrice degli anni Ottanta.

La sua causa è stata quella dei family values, la difesa della famiglia tradizionale (dove «tradizionale» vuol dire modello ceto medio ottocentesco), dei ruoli di genere al suo interno, della separazione fra sfera pubblica maschile e sfera privata femminile. E qui c’è un ricorrente e vitale paradosso. Infatti, per battersi per la causa dei family values, Schlafly ha deciso di uscire dalla famiglia e ha sovvertito i ruoli di genere, è entrata nella sfera pubblica come abile organizzatrice politico-sociale e come leader autorevole e riconosciuta. Per battersi per la causa dei family values, Schlafly ha deciso di uscire dalla famiglia e ha sovvertito i ruoli di genere, è entrata nella sfera pubblica come abile organizzatrice politico-sociale e come leader autorevole e riconosciutaInsomma, per richiamare la definizione datale da una sua avversaria femminista, Phyllis è stata «an extremely liberated woman».

Le sue avversarie femministe, per la verità, dicevano di lei che poteva permetterselo perché aveva sposato un marito ricco e quindi aveva le risorse to have it all, famiglia e carriera (politica). Betty Friedan diceva anche che era una «zia Tom», una traditrice del suo sesso che come le eretiche religiose avrebbe dovuto finire sul rogo. Friedan diceva per dire, com’è ovvio, ma lasciava intravvedere visioni essenzialiste degli interessi di genere che circolavano sottopelle un po’ dappertutto, da una parte e dall’altra della guerra fra donne.

Le seguaci di Schlafly non avevano tutti questi mariti ricchi, e tuttavia anch’esse si davano da fare in piazza e alle urne. La sua crociata più famosa fu quella contro l’Equal Rights Amendment (Era), un emendamento alla Costituzione che garantiva esplicitamente l’eguaglianza di diritti fra i sessi. Era stato approvato dal Congresso nel 1972 e ratificato da molti Stati, ne mancavano solo tre per entrare in vigore. Ma l’organizzazione di Schlafly, «Stop Era», riuscì a bloccarlo in extremis e a ucciderlo – con gli strumenti della politica di massa. 

«Stop Era» mise in campo gruppi di attiviste agguerrite nel lavoro elettorale, di propaganda e di lobby. Nel loro discorso pubblico, e anche nelle convinzioni private, c’era il timore che l’eguaglianza formale dei diritti avrebbe abolito il dovere dei mariti di provvedere alle mogli casalinghe, annullato le leggi protettive della maternità, costretto le ragazze a fare il servizio militare, distrutto le giuste distinzioni di genere, aperto la strada ai matrimoni gay. In questa prospettiva, l’Era e il femminismo erano pericoli per il giusto ruolo della donna, e manifestazioni di sfrenato individualismo. Nel loro discorso pubblico, e anche nelle convinzioni private, c’era il timore che l’eguaglianza formale dei diritti avrebbe abolito il dovere dei mariti di provvedere alle mogliSchlafly ha partecipato da protagonista a molte altre guerre culturali della sua epoca, da quelle sull’aborto, ovviamente dalla parte dei movimenti pro-life, a quelle sui diritti Lgbt, contro di essi (non si è certo convertita dopo la rivelazione pubblica, molti anni fa, dell’omosessualità del suo figlio maggiore.). È stata sempre una militante della destra repubblicana, in cui ha portato la verve del suo cattolicesimo conservatore: una fan delle campagne anti-comuniste degli anni Cinquanta, di Barry Goldwater e di Ronald Reagan – e infine, negli ultimi mesi di vita, di Donald Trump.

 

[Questo articolo esce contestualmente su shortcutsamerica, il blog dell’autore]