I terremoti sono come le guerre. Lasciano dietro di sé cumuli di macerie. E lanciano una sfida che, come le guerre, si può perdere o vincere, la sfida della ricostruzione.

In Italia abbiamo una lunga storia di terremoti di intensità elevata, capaci di distruggere città, villaggi e vite umane, a partire dall’antichità. Abbiamo anche uno degli enti di ricerca più avanzati nello studio storico dei terremoti: l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha costruito un catalogo, consultabile sul sito (http://www.ingv.it/terremoti/ terremoti-storici/) di tutti i terremoti che hanno colpito la penisola dal 461 a.C. al 2002. Solo negli ultimi cinquant’anni abbiamo avuto il Belice, il Friuli, l’Irpinia, l’Umbria, l’Abruzzo, le Marche, l’Aquila e ora la bassa padana tra Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, per citare solo i più gravi. Nella memoria degli archivi tutto è documentato, nella memoria della gente il ricordo dell’evento catastrofico scompare dopo poche generazioni. Vi sono città che nella storia sono state distrutte quattro o cinque volte e ogni volta sono state ricostruite dov’erano e, più o meno, com’erano, incuranti dei rischi che vengono dal sottosuolo.

A parte la memoria storica, nell’epoca della modernità, dove la scienza permette previsioni più affidabili, ci si potrebbe aspettare la presenza di una «cultura dell’emergenza sismica» diffusa nella popolazione dei territori a rischio, una cultura che suggerisca come comportarsi quando la scossa arriva e anche come costruire gli edifici nelle zone dove si sa che, prima o poi, arriverà. Così, in Giappone, quando arriva una scossa fino al sesto grado della scala Richter, non ci sono che lievi danni, nessun morto e poco panico controllato (il terremoto che ha fatto saltare la centrale di Fukushima era di magnitudo 7,1). Da noi la «cultura dell’emergenza sismica», per ragioni che sarebbe interessante indagare a fondo, non si è mai effettivamente radicata e così, quando la terra trema, si tirano in ballo le forze cieche della natura e magari qualche punizione divina per i peccati collettivi commessi. Oggi noi sappiamo, con la ragionevole certezza consentita dal calcolo delle probabilità, che, salvo poche zone (la Sardegna e una parte della pianura padana), l’intero territorio nazionale è a rischio sismico e che alcune aree lo sono assai più di altre. In queste zone non dovrebbe essere consentito di alzare neppure un edificio di un piano soltanto senza adottare criteri antisismici.

È avvenuta un po’ la stessa cosa anche in occasione dell’evento più recente nella pianura tra Modena, Mantova e Reggio Emilia. Con la scusante che in quell’area negli ultimi secoli non si era verificato nessun terremoto di intensità comparabile, gli edifici, e in particolare i capannoni industriali, erano stati costruiti nella fiduciosa certezza che la terra lì non avrebbe mai tremato in modo così devastante. Caso mai, ci si era attrezzati per le alluvioni, dalle quali è più facile proteggersi perché sono prevedibili a breve termine ed è più facile mettersi in salvo quando sale l’onda di piena. Mentre i terremoti arrivano da un momento all’altro, senza mandare segnali di allarme. Ora si tratta di ricostruire, e qui l’esperienza dell’ultimo mezzo secolo può dare qualche utile spunto di riflessione e forse anche qualche suggerimento. La prima fase, quella dell’emergenza, è quasi obbligata: bisogna dare un riparo a tutti coloro che vivevano in costruzioni rese inagibili. Se ci sono zone turistiche nelle vicinanze (e se le stagione turistica è lontana), si requisiscono gli alberghi, altrimenti non resta che costruire nell’arco di poche ore delle tendopoli. Il comando, il potere di decidere, in questa fase è quasi inevitabilmente accentrato nel o nei responsabili della protezione civile, in rapporto di sinergia, ma talvolta anche di tensione, coi sindaci. Spesso viene nominato un commissario dotato di poteri eccezionali. In questa fase, a parte i disagi materiali e a parte la paura che non si placa se, come sta accadendo questa volta, le scosse forti continuano per settimane e mesi, serpeggia nella comunità e nei suoi esponenti la paura della perdita di identità. Si teme che la gente decida di emigrare altrove, magari da parenti che vivono in luoghi più sicuri, si teme che se ne vadano le aziende, che i posti di lavoro non vengano ristabiliti, che le risorse per la ricostruzione non arriveranno, o arriveranno in misura insufficiente e troppo tardi. Se i poteri locali vogliono giocare un ruolo nella ricostruzione è in questa fase che non devono perdere credibilità, sia agli occhi dei propri cittadini (qualche sindaco può non essere all’altezza della situazione), sia a quelli dei rappresentanti del potere centrale che cerca interlocutori credibili a livello locale.

Passata l’emergenza, la seconda fase è forse la più delicata. Bisogna trasformare le tende in insediamenti temporanei in attesa della ricostruil zione. È la cosiddetta «fase dei prefabbricati», spesso graziose villette mono o bifamiliari, ammassate in uno spazio il più delle volte angusto, dotate comunque di qualche confort. Tutto bene se l’insediamento sarà effettivamente temporaneo, se il processo di ricostruzione, tra progettazione, finanziamento e realizzazione non durerà in eterno. Nel caso del Belice (il terremoto, magnitudo 6,1, era stato nel gennaio del 1968) ci sono voluti più di trent’anni prima che gli ultimi abitanti dei prefabbricati potessero traslocare in una casa vera. Anche in Irpinia (terremoto nell’autunno del 1980), si potevano vedere, ancora 7 o 8 anni fa, molti prefabbricati abitati e assai dignitosamente tenuti da famiglie che vi hanno vissuto metà della loro vita, dove sono nati, cresciuti e diventati adulti i loro figli e le loro figlie. In Friuli la transizione è stata più rapida e i prefabbricati sono scomparsi presto dal panorama. È in questa fase, quando molti abitanti vivono ancora negli insediamenti temporanei, che si deve decidere il volto della comunità ricostruita. Le alternative che si pongono sono più di una. La prima è la più radicale. È frequente che si presenti qualcuno (un politico, un gruppo, un urbanista, un imprenditore) che propone di rilocalizzare l’insediamento, o una parte di esso, al di fuori dell’antico abitato, magari in una zona che si ritiene, o che si vuol far credere, sia più sicura. L’argomentazione può avere anche un fondamento razionale. In alcuni casi, gli antichi villaggi erano costruiti in cima alle colline per difendersi dalla malaria e dalle incursioni dei pirati. Oggi che queste ragioni sono venute meno, che non ci sono più muli, ma automobili, può avere un senso scendere a valle e avvicinarsi alle vie di comunicazione. In alcuni casi, è stata adottata una strategia della rilocalizzazione. Soprattutto nel Belice, dove sono state ricostruite «altrove» Salaparuta, Poggioreale e Gibellina, ma anche in Irpinia, dove la stessa sorte è toccata a Conza della Campagna. In Friuli, invece, le ipotesi di spostamento, che pure erano state avanzate, sono state tutte abbandonate, anche se in alcuni casi si sono costruiti nuovi insediamenti in continuità con l’antico abitato, dove è confluita parte della popolazione (è, ad esempio, il caso di Gemona). È comprensibile come in certe situazioni la tentazione di andare a vivere in una casa nuova, moderna, confortevole, soprattutto se l’abitazione che è andata distrutta era vecchia, poco accogliente e magari priva di quei servizi ai quali è lecito aspirare, possa essere seducente. Accade che i centri abitati diventati inagibili fossero già prima dei crolli in stato di degrado e di abbandono, con una popolazione tendenzialmente più anziana e anche più povera. Il terremoto diventa così l’occasione per cambiare, per ripartire da zero, per lasciarsi alle spalle un passato al quale non ci si sente legati. Possono ben essere delle élite modernizzanti che spingono in questa direzione, come possono essere anche gli interessi, non sempre nobili, degli urbanisti, degli architetti e delle imprese edili, nonché dei proprietari delle aree che in questo modo verrebbero rese edificabili. Non mi risulta che si sia affacciata l’ipotesi ri-localizzazione di intere comunità nel caso dei paesi colpiti dal terremoto del maggio 2012. Siamo in pianura, in un’area economicamente prospera, dove gran parte della popolazione aveva già scelto di abitare fuori dal «centro storico ». Non si può escludere però che anche nel caso emiliano-lombardo qualcuno suggerisca o elabori progetti di urbanizzazione e di edilizia residenziale in qualche area esterna dove trasferire la popolazione che ha perso la propria abitazione. In pochi mesi – il caso de L’Aquila insegna – si possono costruire nuovi quartieri, fornire alloggi «chiavi in mano», dotati di cucine moderne, bagni, docce, televisione e accesso a Internet e, forse, anche un parco giochi e una piscina. A quasi tre anni dalla consegna delle prime case ai terremotati d’Abruzzo mi piacerebbe sapere cosa ne pensano gli abitanti. Allora fu il presidente del Consiglio ad attribuirsi le responsabilità, e i presunti meriti, della scelta. Chi deve fare queste scelte? I modelli sono sostanzialmente due: il modello accentrato dove la gestione di tipo «commissariale» della fase di emergenza si protrae fino a condizionare le fasi della ricostruzione, oppure il modello decentrato che gravita intorno ai poteri locali, quindi sostanzialmente intorno alle figure dei sindaci. In realtà questi due modelli compaiono sempre, nei casi di ricostruzione del recente passato, in varie combinazioni. Non c’è un modello valido in ogni tempo e luogo, ognuno presenta vantaggi e svantaggi a seconda delle condizioni locali, delle tradizioni amministrative, della presenza o meno di interessi organizzati (anche criminali) che vogliono ricavare vantaggi dai lavori di ricostruzione. Nel caso del Belice, il modello di partenza fu fortemente accentrato per poi lasciare spazio in una fase successiva ai poteri locali. In Friuli fu adottato da subito un modello decentrato. In Irpinia, una combinazione tra accentramento e decentramento, con effetti che ben sappiamo. Qualcuno ricorderà i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Oscar Luigi Scalfaro e delle inchieste della magistratura passate alla storia col nome di «Mani sul terremoto». Una storia lunga e penosa, alla fine della quale non si sa con precisione quanti soldi quella ricostruzione sia costata al contribuente italiano e, soprattutto, quali effetti abbia avuto sull’economia e sulla società di quella regione. Con certezza si sa che ha rappresentato un salto di qualità nelle fortune economiche della camorra.

L’entità delle distruzioni, le condizioni economiche, le tradizioni amministrative dell’area oggi colpita e, soprattutto, lo stato dei conti pubblici del Paese in questa fase storica lasciano prevedere che non ci saranno le condizioni per una «nuova Irpinia», ma neppure per un «nuovo Abruzzo». Non solo i soldi non abbonderanno, ma la cultura civile e politica di quella parte d’Italia, l’ethos di una popolazione abituata a fare affidamento sulle proprie forze, dovrebbero essere degli antidoti efficaci contro i rischi di spreco. I poteri locali, i sindaci (con il sostegno delle regioni interessate) prenderanno in mano la guida del processo di ricostruzione e sapranno resistere alle offerte che i signori del mattone cercheranno anche in questo caso di avanzare. Se non è una previsione, sia almeno un augurio.

Il quadro dentro il quale prendere le decisioni non sarà comunque semplice. In primo luogo, lo stato d’animo delle popolazioni, le angosce e le paure collettive. Intanto, nessuno sapeva di vivere in una zona a rischio sismico. Non è come in Giappone, in Calabria o in Sicilia dove la terra trema un giorno sì e l’altro pure e la gente si è abituata a vedere gli alberi muovere i rami anche senza vento, i lampadari ondeggiare e i muri emettere scricchiolii sospetti. Solo chi si occupa di sismologia storica sapeva che in quella zona si erano verificati altri terremoti in passato, a partire dal più antico di cui si ha notizia, nel 91 a.C. Ma erano ormai secoli che la terra non tremava abbastanza forte da produrre eventi di cui si potesse appropriare la memoria collettiva. È vero che qualche avvisaglia c’era stata nei mesi precedenti, ma non tale da intaccare la convinzione di vivere sulla terra ferma. L’effetto sorpresa dev’essere stato grande. E poi il protrarsi così a lungo nel tempo di scosse di entità abbastanza forte da rinnovare continuamente le ansie e le paure. Qualcosa di analogo accadde anche in Friuli nel 1980, dove però la seconda scossa devastante arrivò qualche mese dopo, quando la gente aveva già incominciato a riparare i danni e non qualche giorno dopo, in una successione quasi ossessiva. È duro non potersi fidare della terra dove si sta in piedi, non poter dire di avere i piedi saldi per terra. Se la gente non si può più fidare della terra, il rischio è che prima o poi decida di abbandonarla. Nella storia delle comunità terremotate c’è sempre un momento in cui si affaccia il timore che la comunità stessa non sia in grado di sopravvivere. In questi momenti la gente ha bisogno di rassicurazione, di riacquistare fiducia nelle proprie risorse morali, di potersi proiettare nel futuro con un progetto. Qui, il ruolo delle élite locali diventa decisivo: il sindaco, il parroco, il medico, il maestro, l’imprenditore e tutti coloro ai quali la gente guarda come punti di riferimento. La qualità delle classi dirigenti si vede nell’ora del pericolo.

La prima responsabilità dei leader locali è non lasciar passare troppo tempo prima di presentare una credibile road map per la ricostruzione. In Friuli la parola d’ordine era stata: prima ricostruire le fabbriche e i posti di lavoro, poi le scuole, poi le case e poi le chiese. Non c’è alcun dubbio che anche a Mirandola e dintorni le priorità saranno di questo tipo. Prima di tutto, rimettere su i capannoni, tenendo conto questa volta di criteri antisismici rigorosi. Poi i servizi essenziali: scuole e ospedali. A differenza dei casi del passato ricordati prima, il terremoto padano-emiliano ha prodotto relativamente poche vittime umane, ma ha colpito le attrezzature di un’area ricca di attività produttive che operano sui mercati nazionali e internazionali. L’entità dei danni materiali è proporzionale alla ricchezza e al grado di sviluppo della zona.

Il vero problema però sono i centri storici. Sono quasi ovunque i luoghi dove si condensa l’identità della comunità. L’identità è importante, soprattutto quando viene minacciata Nelle esperienze delle ricostruzioni del recente passato si possono identificare quattro modalità. La prima è improntata al principio «dov’era, com’era». Se prima c’era un centro d’epoca medievale, si cerca di farne una copia il più possibile aderente all’originale distrutto, magari cercando di utilizzare i materiali recuperabili dalle macerie degli antichi edifici. È la strategia adottata a Venzone (Friuli), dove le pietre recuperate dell’antico abitato sono state accuratamente numerate una per una per poterle ricollocare nello stesso posto. Oggi Venzone è uno dei più moderni villaggi medievali d’Europa e forse tra qualche decennio, quando il tempo avrà lentamente cancellato i segni della novità, non si noterà più la distanza tra la copia e l’originale. In realtà, il rigore «filologico» si è fermato prevalentemente alle facciate, perché, giustamente, è stata colta l’occasione per adeguare gli ambienti interni, soprattutto i servizi igienici, ai criteri dell’abitare moderno. Il modello Venzone può andar bene per centri storici di eccezionale pregio storico-artistico, ma non è generalizzabile, se non altro per i costi di costruzione sensibilmente più elevati. La seconda modalità limita la ricostruzione «filologica» a poche emergenze architettoniche di particolare valore simbolico per l’identità della comunità: la sede del municipio, la cattedrale e il suo campanile, qualche castello o palazzo storico delle famiglie illustri che hanno governato la città nei tempi addietro. La ricostruzione dei simboli consente alla gente di riconoscersi, di riaffermare la propria appartenenza, di marcare comunque la continuità anche di fronte a un evento che inevitabilmente è vissuto come una cesura che distingue il prima dal dopo. A questa modalità se ne associa frequentemente una terza. In questo caso, ad essere conservata è la pianta dell’abitato, la struttura delle vie e delle piazze e, possibilmente, anche il volume degli edifici, in modo che i percorsi che la gente era abituata a fare rimangano sostanzialmente gli stessi e l’habitat conservi alcune caratteristiche del suo assetto precedente. In questo modo non cambiano i luoghi dove la gente usava incontrarsi, la continuità col passato non viene interrotta. Un’ulteriore variante consiste nell’immissione nel tessuto urbano che rimane largamente invariato di qualche manufatto di grande modernità, qualche edificio nuovissimo, un teatro, una scuola, un parcheggio, la cui progettazione viene spesso affidata a un architetto di grido. In questo modo si cerca di creare un nesso o un accostamento tra continuità e discontinuità, fra tradizione e modernità. La quarta modalità comporta la demolizione parziale o totale degli edifici distrutti e la riedificazione nella stessa area o in area adiacente di nuovi edifici per ospitare la popolazione rimasta senza casa e che vive ancora negli insediamenti temporanei. In questo caso, le tipologie edilizie utilizzate non conservano segni dell’insediamento storico originario. Quello che nasce è un insediamento nuovo. Sia nel Belice, sia in Friuli, sia in Irpinia vi sono diversi esempi sia di ricostruzione selettiva dei centri storici, sia di nuova urbanizzazione. Nel Belice è prevalso il modello della nuova urbanizzazione, salvo il caso di Santa Ninfa e dei centri dove i danni erano stati minori. In Friuli, con poche eccezioni, si è preferito ricostruire selettivamente o restaurare i centri storici, in Irpinia sono presenti entrambe le modalità. Conoscendo un poco lo spirito nello stesso tempo identitario e pragmatico delle popolazioni emiliane e basso lombarde, non avrei dubbi nel prevedere una ricostruzione attenta a conservare alcuni simboli identitari, ma anche a venire incontro alle esigenze abitative di una popolazione laboriosa e moderna.

C’è un aspetto infine che, visitando i luoghi colpiti da calamità, mi si è presentato come intrigante: la monumentalizzazione dell’evento. Faccio quattro esempi. Il primo è la Chiesa di Longarone, progettata da Giovanni Michelucci per ricordare il disastro del Vajont, l’immane catastrofe prodotta dall’incurie umana che lo spettacolo di Paolini ha contribuito a resuscitare dall’oblio. È un’opera ammirevole dal punto di vista artistico di un grandissimo architetto che è riuscito a interpretare sia l’onda devastatrice, sia la volontà di rinascere. Quest’opera resterà nella storia dell’architettura, ma non è questo l’aspetto che qui ci interessa. È piuttosto il significato che l’opera riveste per gli abitanti di Longarone e tutti coloro che vi abiteranno anche nei secoli futuri: un pezzetto della loro identità collettiva sarà sempre legato alla diga del Vajont e la chiesa di Michelucci costituirà il simbolo di questo legame. Il secondo esempio è il cretto di Burri a Gibellina. Fu realizzato nel 1973 (a soli 5 anni dal terremoto, quando ancora tutti gli abitanti erano nei prefabbricati). Era stato deciso che Gibellina non sarebbe risorta nel sito originario dove erano rimasti soltanto dei cumuli di rovine. Burri progettò di ricoprirli di un manto di cemento, conservando il reticolo delle antiche strade, un’immensa tomba in ricordo della morte di una comunità. Anche quest’opera resterà nella storia dell’arte, l’impatto sui visitatori è forte e suggestivo, ma a noi interessa il suo significato simbolico per gli abitanti della nuova Gibellina. Hanno sepolto, con l’aiuto di Burri, il loro passato per acquisire una nuova identità, quella di terremotati. Nella Valle del Belice vi sono altri esempi, alcuni ormai in stato di desolato degrado, di «monumentalizzazione dell’evento». Sono presenze inquietanti. Il terzo esempio riguarda Conza della Campagna. Anche questo paese, arroccato su un colle, è stato abbandonato e ricostruito nella piana più a valle. Le rovine del vecchio abitato sono state trasformate in un parco archeologico, aperto al pubblico. Invece della «monumentalizzazione » si è proceduto alla «museificazione», valorizzando un patrimonio storico che ha superato una lunga serie di distruzioni e ricostruzioni. I monumenti presenti nel nuovo centro abitato inneggiano alla rinascita. Tra il vecchio centro e il nuovo è stato eretto un monumento sobrio alle 184 vittime del terremoto. Il quarto esempio riguarda Gemona ma vale anche per quasi tutti i centri ricostruiti del Friuli. La ricostruzione ha cancellato tutti i segni del terremoto. Un visitatore che non conoscesse la storia dei luoghi non riuscirebbe a rendersi conto che la zona è stata devastata da un terremoto in epoca relativamente recente. Un’iscrizione poco vistosa nella tavola di indicazioni per i turisti di passaggio ricorda che nel 1976 la città è stata colpita da un terremoto. La visita al cimitero consente di vedere una lunga fila di tombe tutte uguali, sono quelle dei morti a causa del sisma. È come se il terremoto fosse stato rimosso dalla memoria e quindi dall’identità collettiva, nella quale prevale la continuità col passato. Gemona e Gibellina, due modi opposti di affrontare il tema della storia e dell’identità. Non c’è dubbio che Mirandola e gli altri comuni colpiti sceglieranno una loro via, tenendo conto anche di che cosa ci ha insegnato la storia recente del nostro Paese.

[Riproponiamo questo articolo uscito sul numero 4/2012, a tre anni dal terremoto del L’Aquila]