Il rapporto Chilcot e la democrazia britannica. La settimana scorsa in Gran Bretagna è stato finalmente pubblicato il rapporto Chilcot, frutto di una inchiesta pubblica durata sette anni sull’intervento armato in Iraq, le sue cause e le sue conseguenze.

Non ci sono scoperte strabilianti: il rapporto sancisce a livello ufficiale quello che la storia aveva già ampiamente spiegato – e che milioni di persone avevano vanamente gridato tredici anni fa: non vi erano prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa in mano a Saddam; la via militare fu scelta quando le altre opzioni erano tutt’altro che esaurite; le conseguenze dell’intervento, quasi ovvie da presagire, dice Chilcot, non furono adeguatamente preparate. Il rapporto non si spinge a dire che l’intervento fu illegale (non ne ha l’autorità), ma spiega come Stati Uniti e Regno Unito agirono contro il volere della comunità internazionale ed in diretta contrapposizione con l’Onu.

Politicamente, si tratta della pietra tombale sulla legacy di Tony Blair, che ne esce come un politico spregiudicato, impreparato e non credibile. Nuovamente, nulla di nuovo: la bancarotta morale del New Labour era chiarissima già nel periodo immediatamente successivo al conflitto e Blair è il personaggio politico meno popolare tra i cittadini britannici.

Insomma, il rapporto Chilcot conferma quello che era già chiaro a tutto o quasi. Inutile, dunque? Non proprio. Soffermarsi sulla guerra o sulla figura di Blair sarebbe mistificante – ed è infatti, quello che viene in larghissima parte fatto. Quello a cui invece, a mio parere, il rapporto dovrebbe servire è una riflessione sulla democrazia. Su come anche il sistema politico più antico del mondo, con il suo Parlamento forte, con i suoi checks and balances, si sia dimostrato assolutamente inadeguato a fermare una azione così drammaticamente e ovviamente sbagliata. Sia chiaro: nessun sistema è infallibile, gli errori di valutazione fanno parte della natura stessa della politica.

Qui però parliamo di altro: rapporti palesemente falsi passati per veri; banali considerazioni di diritto internazionale saltate a piè pari, riuscendo a mettere, allora, sul banco degli imputati l’Onu e non il governo che lavorava per sabotarne il lavoro; una stampa largamente connivente e comunque incapace di mettere alle corde il potere politico; una opposizione – con l’eccezione dei LibDem – sdraiata sulle posizioni di Blair; e, soprattutto un Parlamento completamente sordo al sentimento e alla protesta della maggioranza della popolazione – e questo in un sistema elettorale che dovrebbe costruire un legame solido tra elettori ed eletto.

Due sono le lezioni da trarre. La prima è che se vogliamo cercare un punto di svolta nel rapporto tra i cittadini e il sistema politico, la guerra in Iraq anticipa e, per molti aspetti, è ancora più gravida di conseguenze della crisi finanziaria. Si tratta del momento in cui i cittadini britannici hanno capito di non poter più fidarsi dei propri rappresentanti, una rottura di quel legame di trust le cui conseguenze rimbalzano fino ad oggi, con la Brexit e l’ondata anti-establishment che sta travolgendo la politica occidentale. La seconda lezione è strettamente legata alla prima, e riguarda il tipo di democrazia che vogliamo per il nostro futuro. Quando si parla, come sempre più spesso in Italia, e non solo, di governabilità, di diritto di decidere e di governare per chi vince le elezioni, tendiamo spesso a dimenticare che i freni al potere dell’esecutivo ci sono anche, e soprattutto, per evitare situazioni del genere.

Nel 2003 Blair trascinò in guerra un Paese contro le regole, contro il buon senso, contro la volontà popolare, manipolando la realtà fino a distorcerla. Il problema, però, non è Blair, e forse neanche la tragica guerra con tutte le sue drammatiche conseguenze. Il punto della questione è piuttosto capire come evitare che azioni del genere possano ripetersi.