Summer is coming. Ribaltando una delle frasi-simbolo della serie, con l’arrivo dell’estate si chiude la sesta stagione di Game of Thrones. Un’annata di svolta e insieme di passaggio. Di svolta, perché il cadenzato ritmo della messa in onda televisiva ha superato le lentezze della scrittura, e così gli sceneggiatori della serie David Benioff e D.B. Weiss si sono trovati ad abbandonare la base sicura dei libri di George R.R. Martin (già rielaborata in passato), nell’attesa di un prossimo libro non ancora uscito. E inevitabilmente di passaggio, perché Hbo ha già rinnovato il suo titolo di punta per altre due stagioni, lasciando spazio a imprevisti e colpi di scena ma insieme depotenziandolo dell’arma più grande, la chiusura della storia.

La serie, trasmessa in Italia da Sky Atlantic con il titolo Il trono di spade, a breve distanza dagli Stati Uniti (un giorno per la versione originale sottotitolata, una settimana per quella doppiata in italiano), non sente più di tanto la stanchezza degli anni ormai passati, ma continua a macinare ascolti (soprattutto negli Usa), a generare attesa e curiosità, a imporsi nella popular culture globale sia direttamente sia con riferimenti ironici e parodie. La aiuta senz’altro il grande dispiego di forze promozionali che in tutto il mondo accompagna ogni nuova stagione o episodio, e riempie addirittura il vuoto, detto hyatus, tra un blocco narrativo e quello seguente. Ma questo non basta a spiegare il fenomeno.

Una prima possibile chiave di lettura è quella della moltiplicazione e dell’abbondanza. Tutto, in Game of Thrones, è (anche) troppo. Eccessivo nella forma, certo, ma soprattutto nella quantità, così da stimolare l’interesse di ogni tipo di spettatore, e a ciascuno lasciare qualche cosa. I personaggi sono tanti, troppi; al punto che da anni un inside joke ricorrente è legato alla difficoltà di elencarli tutti, di associare i nomi ai volti, di stabilire parentele e connessioni, e che le numerose morti di personaggi minori, espediente usato e forse abusato, finiscono addirittura per dare sollievo allo spettatore già smarrito. Sono tanti, troppi, ed è una conseguenza diretta e inevitabile, anche i colpi di scena, i ribaltamenti di fronte, le sorprese così frequenti da diventare assolutamente prevedibili, le linee narrative di un multistrand che apre continuamente nuove sottotrame, chiudendone ben poche, e al massimo congelandole per un po’ fino al momento in cui tornano di nuovo utili. E ancora, sono tante anche le possibili chiavi interpretative della serie, le prospettive da cui è possibile avvicinarla, leggendone le linee narrative principali o anche solo brevi accenni di dialogo, piccole circonvoluzioni di trama. Il trono di spade è un testo poliedrico, ricco di sfaccettature e di superfici che rimandano a possibili profondità: c’è la chiave storica, a partire da quella guerra delle Due Rose su cui era ricalcata la struttura generale, almeno all’inizio; quella politica, fatta di intrighi e successioni, di accordi e gestione dei regni; quella militare, con le grandi battaglie che ogni anno si affacciano tra l’ottavo e il nono episodio, e quella economica, in cui si ragiona di finanze, tasse e banche, sia pur trasfigurate; e poi la lettura sociale, con la piramide (in alcuni casi costruita davvero) tra poveri e ricchi, tra schiavi e padroni, ma anche con quei bruti che oltrepassano ogni confine e barriera, in fuga da un pericolo ancora più grande; quella religiosa, con le differenti spiritualità, monoteismi e politeismi, e la morsa che stringe in un abbraccio velenoso il potere temporale e quello spirituale; o quella femminista, con donne forti che sole riescono a levare d’impaccio fratelli e altri maschi sempre fragili. E poi ancora l’epica e il fantasy, la letteratura e il gossip. Un intreccio vorticoso di letture e meta-letture, di simboli e allusioni, che trova una sottolineatura ulteriore, in questa stagione, nella mise-en-abyme del teatro di strada che rimette in scena vecchie parti della stessa narrazione, mostrando la natura situata di ogni racconto e (cosa che non guasta) facendo pure un po’ di riassunto.

Accanto alla moltiplicazione e all’abbondanza, un altro dispositivo – strettamente legato, e connaturato fin dal profondo al mezzo televisivo, fin dalle origini abituato a ragionare sui tempi lunghi e lunghissimi più che sugli eventi puntuali – è quello della ripetizione. La ricchezza del racconto, nei suoi elementi e nelle sue interpretazioni, è controbilanciata, resa più afferrabile e comprensibile, dalla ridondanza. Con il proseguire degli episodi e delle stagioni, la narrazione si estende e si dilata, fino al punto di rischiare, a tratti, di girare a vuoto: e questo snerva lo spettatore e insieme lo rassicura, compensa il mancato avvicinarsi di un atteso traguardo (o l’ennesima messa in discussione di tutto) con la promessa di tante altre storie ancora da narrare, di tante altre ore da passare davanti alla tv. Si tratta di un’opposizione presente, almeno in sottofondo, in ogni serie, ma Game of Thrones la porta alle estreme conseguenze. Un’intera linea narrativa, quella della regina dei draghi Daenerys Targaryen, prosegue indipendente e del tutto scollegata del resto dell’intreccio, se non per una generica tensione verso l’ovest, per ben cinque stagioni, prima di incontrare anche solo qualche personaggio del resto del racconto; e anche quando tutto sembra finalmente stare per accadere, ecco che la storyline riparte da capo, ancora una volta ad accumulare armate, se dothraki o di altre etnie poco importa. Non appena il procedere della trama rischia di diventare troppo prevedibile, ecco allora sbucare espedienti (più o meno previsti) che scombussolano il flusso narrativo, come (entrambi in questa stagione) la risurrezione di un protagonista come Jon Snow o lo stabilirsi di strane connessioni tra piani temporali differenti (nella vicenda di Bran Stark). La lunga serialità costringe ad alternare, e nei casi migliori a bilanciare, piacere e frustrazione.

Mettere in luce questi aspetti, la moltiplicazione e la ripetizione, aiuta a grattare sotto la superficie di una serie come Il trono di spade e a trovarci qualcosa di forse inatteso, complesso, persino contraddittorio. Da un lato, la promozione e molta ricezione critica hanno subito inserito la serie nell’ampia categoria della cosiddetta quality tv, che si distingue dal resto del flusso e della programmazione: è un aspetto innegabile, legato al marchio e alla tradizione di Hbo, alla ricchezza visiva e alla cura nella scrittura e nella realizzazione, al rapporto con i romanzi e alla costruzione di un mondo immaginario ricco e pienamente “ammobiliato”, per dirla con Eco, alla produzione high budget e high concept. Ma sotto a questa crosta, al livello visibile, pulsano dinamiche differenti. E così, dall’altro lato, sono almeno altrettanto importanti le strutture, le forme, e a volte direttamente gli stilemi di soap opera e telenovela, della narrazione moltiplicata e ripetitiva spesso ingiustamente disprezzata e reputata «bassa», ma in realtà capace di avvincere e coinvolgere lo spettatore a livello profondo, di tenerlo legato emotivamente a situazioni e personaggi, di fargli provare qualcosa. Da questa mescolanza tra alto e basso, tra qualità (apparente) e (altrettanto apparente) banalità del quotidiano, nasce qualcosa di inedito. Capace di sorprendere il pubblico d’élite (vera o presunta), colpito sotto la cintura da trucchi della daytime soap di cui non sospettava neppure l’esistenza, e insieme in grado di includere l’audience più larga in una narrazione ricca e curata fin nei dettagli. Abile nel sorprendere con una singola inquadratura, una scena, un dialogo tra gli attori, e insieme efficace nel dare vita a un grande discorso collettivo, che di puntata in puntata, seguendo le temporalità del palinsesto, prova a completare i puntini, a sviluppare percorsi interpretativi, a ipotizzare soluzioni, in attesa della domenica/lunedì seguenti. Conquista e fidelizzazione, rassicurazione e stupore: nella complessa battaglia per l’attenzione dello spettatore, Game of Thrones tenta la quadratura del cerchio. E nei momenti migliori, ci riesce appieno.