Le critiche nei confronti della Rai, che peraltro ci sono sempre state, si sono accentuate e concernono le peculiarità che giustificano il servizio pubblico: riguardano la programmazione, giudicata troppo simile alle Tv commerciali, e l’informazione, valutata parziale e non obiettiva. A ciò si aggiunge una diffusa ostilità nei confronti del canone di abbonamento.

Quanto sono fondate queste critiche? Si può ritenere che il servizio pubblico, nella società della comunicazione globale (il 74% delle persone che si vogliono informare usa ancora la Tv, ma il web segue a ruota con il 62%, dati Agcom), sia ancora giustificato?

Ogni mattina i dati di ascolto del giorno precedente premiano spesso le reti della Rai. Con l’arrivo del digitale ci sono, oltre ai quattordici canali Rai, circa settanta canali free nazionali e quindi l’offerta è amplissima, considerando anche le reti locali, le satellitari e quelle a pagamento. Vincere negli ascolti in questa situazione è una prerogativa da non sottovalutare, anche se l’ascolto non è indicativo della «qualità» (termine quanto mai generico) di un programma, ma offre pur sempre delle indicazioni sull’apprezzamento dello stesso programma. Un servizio pubblico visto da pochi sarebbe un «servizio privato», non meritevole certo di incassare l’imposta-canone. I problemi sorgono quando l’ascolto diventa l’obiettivo primario al quale si piega la programmazione. Quando avviene? Accade quando la programmazione punta alla massimizzazione della raccolta di pubblicità, che come precondizione ha proprio il conseguimento di ascolti più alti possibili. L’obiettivo condiziona sempre il mezzo: se quindi l’obiettivo è la raccolta pubblicitaria, la programmazione si piega alle sue logiche (gli sponsor non sono dei filantropi, pretendono programmi ben mirati ai loro interessi). Si badi bene, non si vuole assolutamente criticare la pubblicità, che è la risorsa principale del sistema e grazie alla quale si alimentano pezzi importanti della cultura. Si vuole solo dire che se la Rai segue le logiche della Tv commerciale («fare la Tv per vendere la pubblicità»), perde la natura di servizio pubblico.

La soluzione? La Rai è il servizio pubblico più «commerciale» d’Europa avendo la quota della pubblicità sui ricavi più alta, e quindi dovrebbe ridurre (ottima la scelta di togliere la pubblicità da Rai Yoyo) il peso della pubblicità, anche se ciò dovesse implicare una cura dimagrante, la quale peraltro non è sempre negativa, se fosse utile a far riscoprire alla Rai le sue originarie vocazioni.

Il secondo tema è l’informazione. La Rai è sempre stata filo-governativa, predisposizione che adesso (in concomitanza con importanti scadenze elettorali) sembra si sia accentuata. Le opposizioni si possono «consolare» ricordando che, nella seconda Repubblica, i premier che hanno «dominato» sulla Rai, hanno anche perso le elezioni. Il problema va comunque risolto se si vuole avere un’informazione libera, tipica di una democrazia occidentale (la libertà di stampa in Italia è scesa al settantasettesimo posto nella classifica mondiale).

Vi sono due forme di pluralismo. C’è quello «esterno» che fa riferimento all’intero sistema e si misura col numero di emittenti e di testate. Più c’è concorrenza, maggiore è la possibilità che tutte le posizioni siano rappresentate (come avviene, per esempio, nei quotidiani). In questo caso, la presenza del servizio pubblico non è così decisiva per equilibrare il livello dell’informazione generale. Va segnalato che la concorrenza nella Tv non sia mai verificata, giacché per decenni c’è stato il duopolio Rai-Mediaset, che si è solo attenuato con l’arrivo del digitale terrestre.

Il pluralismo «interno» fa riferimento alla necessità che i singoli telegiornali siano equilibrati: deve essere un imperativo del servizio pubblico, ma si ritrova alcune volte nel settore privato (per esempio, il Tg di Enrico Mentana). L’informazione più equilibrata della Rai dovrebbe compensare, almeno in parte, le disfunzioni del sistema privato (come avvenne durante l’era berlusconiana).

In sostanza, la presenza del servizio pubblico è più necessaria nei sistemi oligopolisti, meno in quelli concorrenziali; nel frattempo il servizio pubblico contribuisce a tracciare il modello di mercato che può essere più o meno concorrenziale secondo la sua dimensione (al riguardo si ricorda che la Rai è il servizio pubblico europeo con gli ascolti più alti e con la maggiore offerta di reti).

La soluzione ottimale è quella in cui il servizio pubblico non limiti, per la sua dimensione, la concorrenza e nello stesso tempo, in tutte le forme dell’informazione, dai Tg ai talk, sappia essere pluralista e non di parte.

La Rai si deve meritare il canone (come ha anche detto il suo Direttore generale), ma il canone si paga al servizio pubblico e solo indirettamente alla Rai. Di un moderno e più delineato servizio pubblico c’è ancora bisogno: si trovi allora il modo che servizio pubblico e Rai si ricongiungano!

In attesa di decisioni sulla ridefinizione del servizio pubblico (il governo ha attivato una consultazione pubblica) e sulla normativa antitrust di sistema, la Rai dovrebbe offrire programmi ottimi e corretti, perché su questo è giudicata.