Negli ultimi anni, l’Italia è stata meta di migrazione, dai Paesi terzi, non soltanto economica. Da noi giungono migranti che sfuggono anche a conflitti, persecuzioni o al rischio per la sicurezza personale. Com’è facile intuire, questa è una migrazione diversa da quella tradizionale, che ne ha mutato la fisionomia, che esprime bisogni eterogenei, tendenti a sommarsi. All’interno del fenomeno sono presenti categorie ‒ si pensi ai minori stranieri non accompagnati o alle donne vittime di tratta ‒ che esprimono livelli di vulnerabilità e complessità tali da richiedere competenze specifiche, approcci integrati.

Lo Stato, le sue articolazioni territoriali e il terzo settore cercano, faticosamente, di rispondere ai bisogni, ma spesso la risposta si rivela inefficace. Le ragioni risiedono in un approccio di natura emergenziale, sbilanciato su assistenza agli sbarchi e accoglienza, che fatica ad affrontare il nodo principale, quello dell’inclusione; inclusione che richiede, invece, capacità di elaborare programmi personalizzati, promuovere pari opportunità d’accesso alla formazione e competitività nel mercato del lavoro, attraverso modelli di certificazione delle competenze, riconoscimento dei titoli di studio ecc. Pur non negando l’esistenza di buone prassi a livello locale, che anzi andrebbero valorizzate, si avverte l’esigenza di una revisione dei modelli, di una contaminazione con esperienze maturate in altri contesti, in particolare quelli con una consolidata tradizione di politiche a favore di rifugiati e richiedenti asilo. I bisogni che emergono, dunque, sono quelli di un’analisi del livello di integrazione dei Tpi (Titolari protezione internazionale) nel medio e lungo periodo (transitati o esclusi dal sistema d’accoglienza); di una valutazione delle ricadute delle politiche nel lungo termine; della strutturazione di un sistema di confronto con altre pratiche europee ai fini del miglioramento del sistema di integrazione e della sua sostenibilità.

Un modello che giunga a definire, a livello nazionale, le attuali condizioni di inclusione dei migranti, per raccogliere informazioni utili al miglioramento e al rafforzamento dei servizi attualmente offerti, attivando il confronto tra politiche e pratiche di integrazione relative a quattro ambiti (accoglienza, presa in carico, formazione e orientamento) sviluppate in Italia e in Europa ai fini del trasferimento, in ambito locale e nazionale, delle migliori pratiche transnazionali.

Occorre affrontare le criticità, e già oggi ne emergono di strutturali, come ad esempio il rapporto tra pubblica amministrazione e migranti, che occorre migliorare, accrescendo i livelli qualitativi dell’offerta e dell’accesso ai servizi.

Il contesto ci impone di rimuovere gli ostacoli alla piena fruizione dei diritti di cittadinanza da parte dei migranti e ciò può realizzarsi favorendo lo scambio e il confronto tra attori italiani ed esteri provenienti da istituzioni locali, regionali e/o nazionali, dal mondo della cooperazione sociale, dell’associazionismo e della ricerca, per condividere conoscenze e identificare modelli e servizi di integrazione dei cittadini stranieri, con particolare riferimento agli ambiti dell’accoglienza, della presa in carico, della formazione e dell’orientamento.

Si tratta, in sintesi, di identificare e creare canali che facilitino l’ingresso e il percorso migratorio, definendo programmi individualizzati e percorsi di cittadinanza tra i Paesi di prima accoglienza e quelli di possibile destinazione.

Il valore aggiunto si misura in termini di maggiore valorizzazione delle risorse umane migranti, strutturando un protocollo di riconoscimento, equiparazione, validazione e certificazione dei titoli scolastici, accademici, professionali e delle competenze tecnico-pratiche agile, efficace e rapido, mutuato dal confronto con le migliori pratiche sperimentate in Europa, verso la definizione di un sistema unico e valido in tutta la comunità europea.

I programmi individualizzati, come metodologia, si pongono l’obiettivo di rilevare e indagare i bisogni dei destinatari ‒ sanitari, legali, professionali e formativi ‒ predisponendosi al loro soddisfacimento, ponendo i migranti in condizioni di pari opportunità di accesso alle risorse territoriali e al mercato del lavoro. Si delineano, così, profili pronti all’inclusione sociale, meno esposti ad atteggiamenti discriminatori, capaci di proporsi come risorse, attenuando i rischi di conflittualità sociale causati da derive marginali o da disparità nell’esercizio della cittadinanza attiva. Questa buona pratica andrebbe scambiata con quelle di altri Paesi europei, per creare confronto e uniformità nei processi inclusivi, ferme restando le diversità contestuali. Soprattutto, considerando che ci sono Paesi di prima accoglienza e altri di destinazione finale nel progetto migratorio di tante persone rifugiate, diventa indispensabile la messa in rete per consentire un flusso protetto dalle sedi di sbarco o primo ingresso a quelle di collocazione finale. Se, ad esempio, Paesi di prima accoglienza come l’Italia o la Spagna concordassero un modello unico di ricevimento e costruzione di opportunità individualizzate, tali da definire profili già pronti all’inclusione socio-lavorativa, e si indirizzassero i flussi di migranti verso mete di destinazione ‒ come Svezia, Germania ecc. ‒ attraverso canali progettati fra gli Stati in questione, l’accesso ai nuovi territori e la capacità di integrazione avrebbero un oggettivo miglioramento, e i rischi di conflittualità diffusa si ridurrebbero sensibilmente, con un’economia sulle risorse finanziarie da destinare alla loro inclusione davvero notevole.

Siamo in una fase di chiusura e di costruzione di muri (culturali e reali) nelle politiche dei singoli Stati europei verso i flussi migratori, delineando scenari di conflitti ed emergenze permanenti che non risolvono la questione (del resto, non rallentano nemmeno i flussi). Aprire, invece, spazi di mobilità consapevole, rende i percorsi inclusivi non solo realizzabili, ma addirittura virtuosi. L’Unione europea dovrebbe indirizzare le proprie risorse in tal senso e il lavoro sociale dovrebbe, a sua volta, essere pronto a svolgere la propria parte nella definizione dei programmi individualizzati e nella costruzione delle reti, avendo a disposizione finanziamenti mirati ed adeguati.

Perché tutto ciò si realizzi, occorre sensibilizzare la cittadinanza, le istituzioni, le risorse dei territori; far emergere la questione e la centralità delle pratiche che possono risolverla in termini progressivi.