La libertà religiosa sembra sempre più spesso destinata a sfumare in un problema di sicurezza, soprattutto da quando, dall’11 settembre agli ultimi fatti di Bruxelles, l’islam è visto come complicazione sociale. Per lo più, la politica ha risposto con prodotti emergenziali, difensivi e senza respiro: dalla grande guerra contro il terrorismo alle piccole guerre locali contro i veli, i minareti, le moschee. Il legislatore italiano ha finora resistito a intervenire esplicitamente, probabilmente perché disabituato a ragionare in materia di libertà religiosa.

Ma l’incapacità del legislatore di affrontare la questione del pluralismo in termini contemporanei non ha certo impedito alla storia di fare il suo corso e alla fine la questione è arrivata alla Corte Costituzionale, che si è recentemente trovata ad affrontare due diverse questioni giuridicamente rilevanti. Il suo intervento è stato sollecitato dalla presidenza del Consiglio che, da un lato, ha sollevato un conflitto di attribuzioni per contestare la competenza della Cassazione a sindacare il diniego opposto dal governo alla richiesta dell’Unione degli atei di avviare le trattative per la stipulazione di un’intesa e, dall’altro lato, ha impugnato una legge della Lombardia che aveva regolamentato la questione degli edifici di culto (nota come «legge anti-moschee»).

La Corte ha come colto la palla al balzo per fissare alcuni riferimenti che mettono in chiaro la cornice costituzionale entro la quale bisogna muoversi per proteggere e promuovere la libertà religiosa. Da questo punto di vista le due sentenze sono figlie della stessa insoddisfazione verso un quadro normativo che nel corso degli anni si è riempito in modo disordinato, fino a rendere irriconoscibile l’originario disegno costituzionale.

Il cuore del pensiero della Corte emerge dalla lettura congiunta delle due pronunce, che si completano e si spiegano a vicenda, creando difficoltà sia a chi soffia sul fuoco della paura per limitare il diritto di libertà di religiosa sia a chi mostra indifferenza verso la necessità di regolare il pluralismo con strumenti contemporanei. Da quest’ultimo punto di vista, sembra chiaro l’invito a spronare il legislatore a elaborare una moderna legge sulla libertà religiosa e a superare la cocciuta moltiplicazione di «intese fotocopia», quasi che fosse possibile rincorrere il pluralismo accumulando leggi speciali e privilegi.

Il ricorso all’intesa ha consentito ai governi di tenersi prudentemente distanti da tutte le questioni più delicate in materia di esercizio della libertà religiosa che l’attualità continua a proporre: dall’educazione religiosa nelle scuole all’esposizione dei simboli (la questione del crocefisso o del velo islamico), dalla spesa pubblica di carattere religioso alla questione dei cappellani, ancora oggi pubblici impiegati, dal superamento del modello matrimoniale tradizionale alla regolamentazione del fine vita e delle altre questioni «eticamente sensibili».

Nel silenzio del legislatore tali questioni sono state comunque affrontate dai giudici, che hanno così svolto un ruolo di supplenza proprio mentre la libertà religiosa transitava da un’accezione positiva e virtuosa verso una percezione negativa, fino ad essere considerata – almeno in alcuni ambienti – un rischio per la sicurezza dello Stato. Nel contempo sono intervenuti anche gli enti locali, introducendo limitazioni e ostacoli al godimento indifferenziato dei diritti di libertà religiosa con prassi e regolamenti di polizia locale che hanno iniettato nel sistema il veleno della diseguaglianza, mascherato con le vesti delle più disparate esigenze tecniche: dalla tutela delle radici identitarie alla programmazione urbanistica.

La Corte è intervenuta in questo quadro disordinato ribadendo in primo luogo che la libertà religiosa spetta a tutti, in modo indipendente dai contenuti della fede professata, e che il suo effettivo e pieno godimento non è subordinato alla stipulazione di un’intesa (sentenza n. 63). La Corte riconduce così l’intesa alla sua funzione originaria di promozione delle specificità confessionali, recupera il senso pieno della formula costituzionale dell’eguale libertà e restituisce al fenomeno religioso il suo valore positivo. In sostanza, rilancia il modello italiano della laicità positiva, la cui solidità non deve essere intaccata dalle emergenze securitarie.

Partendo da questa ineludibile base, la Corte ribadisce che i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti a un bilanciamento, per evitare che uno di questi “si faccia tiranno” sugli altri. Così, la libertà religiosa dovrà essere promossa e tutelata garantendo le esigenze di una convivenza pacifica, rispettosa dei diritti di tutti. Se la legge comune garantisce la libertà religiosa, gli accordi recuperano una funzione accessoria e solo eventuale, perciò non esiste un diritto ad avere un’intesa, ma solo un interesse di mero fatto, come tale interamente rimesso alle valutazioni politiche del governo (sentenza n. 52).

Dunque, la libertà religiosa non dipende dalle intese, mentre le intese dipendono dalla volontà politica e non giustiziabile del governo. Quest’ultima può derivare anche da esigenze storicamente determinate, da considerazioni geopolitiche o derivanti dal contesto internazionale, si può quindi modificare nel tempo. Insomma, il governo potrà decidere se e quando aprire una trattativa con le confessioni religiose, e specialmente con l’islam (perché, evidentemente, questo è il problema politico attuale). Ma non potrà mai negare l’esercizio dei diritti di libertà, perché questi non dipendono dall’intesa.

Vero è che la Corte attribuisce così alla responsabilità politica del governo tutto il procedimento connesso alla stipulazione dell’intesa: dalla preliminare qualificazione religiosa del gruppo richiedente fino all’approvazione parlamentare della legge. È un esito che non convince, ma che risulta in qualche modo indotto dall’impossibilità della Corte di esprimersi in termini che sarebbero altrimenti stati apertamente legislativi e sostitutivi del legislatore (benché inerte, pur sempre legislatore!).

In tutta questa storia la vera assente resta – e da decenni – la politica. È noto che il coraggio non può darselo chi non ce l’ha; così com’è raro che chi coltiva uno sguardo basso possa d’un tratto assumere una prospettiva alta e di lungo respiro. Ciò nondimeno appare necessario adoperarsi affinché le due sentenze spingano davvero il legislatore a uscire allo scoperto e battere un colpo.

La scelta di non scegliere che ha finora caratterizzato la politica ecclesiastica italiana ha prodotto risultati persino pericolosi. Davanti a un mondo infuocato bisogna difendere tutte le libertà senza subordinare questa difesa all’umore delle variabili alleanze politiche. Se a questo aggiungiamo le ripetute affermazioni della Corte dei Conti sulla irragionevolezza dell’attuale sistema dell’otto per mille, che rappresenta la parte più luccicante ­- se non la più importante - degli accordi bilaterali, risulta evidente la necessità di stabilire linee chiare e condivise di una politica ecclesiastica contemporanea basata sulla protezione e promozione delle libertà senza subordinazioni concordatarie o comunque pattizie.

Superare quindi definitivamente e senza indugi la legge del 1929 per vararne una che valga per tutti e che a tutti estenda quelle norme dal contenuto non identitario oggi contenute nelle intese. Anche per farsi carico di delineare il procedimento che conduce all’intesa, onde evitare che le minoranze religiose e non confessionali restino del tutto in balìa delle maggioranze parlamentari.

Con apprezzabile determinazione, la Corte ha ricollocato la regolamentazione del diritto di libertà religiosa al centro del dibattito giuridico, senza cedere nulla alle pressioni, spesso strumentali, che agitano il mondo politico e l’opinione pubblica. La versione della Corte però manifesta, già a una prima lettura, alcune smagliature. D’altra parte, solo il legislatore possiede lo strumentario adatto per completare l’opera, per dimostrare che la sicurezza collettiva si raggiunge promuovendo i valori costituzionali: garantendo, non sottraendo i diritti; includendo, non escludendo; dialogando con tutti, specialmente con quelli che comprendiamo di meno.