Poche cose stimolano l’attenzione dei media nostrani per gli Stati Uniti quanto la campagna per le elezioni presidenziali. Se poi il ciclo elettorale disvela tratti ostentatamente circensi, come nel caso delle primarie repubblicane di quest’anno, allora l’interesse raddoppia. E tutti si ritrovano a parlare e scrivere di Stati Uniti. A dire la loro. Diritto legittimo, ci mancherebbe. Ma quando sulle pagine dei principali quotidiani nazionali prevalgono approssimazioni, caricature e non di rado grossolanità, quando un’importante corrispondente dagli Stati Uniti scrive che “il liberal americano” pro-Sanders “odia il tabacco, beve con cautela ma discetta di indica e sativa” e “si rilassa fumando marijuana”, allora qualche problema si pone. O almeno devono provare a porselo gli studiosi di cose statunitensi.

Perché tutti parlano, e si sentono in diritto di parlare, di Stati Uniti in Italia? E perché pochi, pochissimi, lo fanno bene? Perché persone che degli Usa sanno poco o nulla si sentono legittimate a pontificare su di essi con tanta sicumera? Come si spiega lo scarto, davvero macroscopico, tra la curiosità diffusa e talora ossessiva per gli Usa – la loro politica, la loro cultura, la loro società – e il livello basso, a volte bassissimo, della discussione pubblica e mediatica sulle questioni statunitensi?

Sono domande che nella piccola comunità di americanisti italiani ci si pone spesso. È una comunità, questa, popolata da studiosi inevitabilmente internazionalizzati. Che nel mondo dell’americanistica mondiale si è costruita un suo profilo e una sua visibilità, come dimostrano i tanti premi ricevuti negli anni dall’Organization of American Historians. E che però fatica immensamente a far sì che la qualità scientifica delle proprie ricerche abbia una ricaduta più ampia e diffusa; a farsi ascoltare da un pubblico non limitato agli studenti o agli addetti ai lavori.

Le risposte a tali domande variano, anche se non sono necessariamente esclusive. Possono però essere riassunte in due ambiti fondamentali. Il primo ha a che fare con la presenza, tanto pervasiva quanto visibile, degli Stati Uniti nella nostra quotidianità. Cinema, musica, sport e sì anche politica – politica-spettacolo come quella di questi giorni – fanno parte della nostra vita; con essi vi interagiamo tutti i giorni. Gli Stati Uniti continuiamo a chiamarli “America”, pur sapendo che è sbagliato e politicamente scorretto, proprio per la familiarità che sentiamo di avere con essi.

Siamo tutti, in fondo, investiti dalle molteplici manifestazioni e proiezioni della potenza statunitense. Ci sentiamo tutti un po’ “americani”. Nel caleidoscopio statunitense, ognuno può trovare un’America da amare e una da odiare, con la quale immedesimarsi o alla quale contrapporsi. E visto che pensiamo di viverci, a modo nostro, in questi Stati Uniti globali perché mai non dovremmo parlarne o addirittura scriverne? Perché non dovremmo permetterci con gli Stati Uniti quello che mai ci permetteremo con un altro Paese?

Altro Paese, qualsiasi esso sia, che però a sua volta si studia e conosce poco o nulla, in Italia. A volte anche meno degli Stati Uniti. Ed è da qui che si deve partire per trovare la seconda risposta alle nostre domande. Gli studi e le storie d’area in Italia – e l’americanistica è una di questi – sono ormai chiusi in un recinto che sembra stringersi sempre più. Sarebbe bello credere – come fanno taluni – che ciò derivi da un superamento dell’idea stessa di una partizione nazionale o regionale, arbitraria e spesso geopoliticamente determinata, dei campi del sapere storiografico a favore di una svolta finalmente globale e transnazionale.

Ma così purtroppo non è. La nuda verità è che di fronte a risorse calanti, i settori di studio più deboli – e gli studi d’area invariabilmente lo sono – soccombono, come rivelano crudamente i dati sul numero delle cattedre, degli insegnamenti, anche solo delle borse dottorali e post-dottorali. E così a insegnare la storia degli Stati Uniti al posto degli americanisti il più delle volte non ci vanno studiose e studiosi colti e globalizzati, capaci d’inserire entro una cornice transnazionale l’esperienza storica statunitense: a de-provincializzarla, come va di moda dire oggi. Molto più banalmente, e tristemente, ci vanno persone che di quell’esperienza storica hanno una conoscenza al meglio manualistica e che di altro, nei loro studi, si occupano. Di Stati Uniti quindi si parla e scrive male anche perché di Stati Uniti – in modo serio e storiograficamente aggiornato – si parla sempre meno nelle sedi preposte a farlo, a partire proprio dalle aule universitarie.

Ci sono semplici vie d’uscita? Ovviamente no. E di doglianze gli studiosi italiani di cose statunitensi ne hanno lanciate davvero tante negli anni, senza che ne venisse fuori granché. Che almeno però si provi a dirlo. Si ricordi che gli articoli sull’America che scopriva il frigidaire li poteva scrivere Prezzolini sessant’anni fa. Si sottolinei come nessuno studioso serio della politica estera degli Stati Uniti ormai usi più la categoria d’isolazionismo, alla quale continuano invece pervicacemente ad aggrapparsi tanti commentatori nostrani. Si provi a far presente che sulle cose che non si conoscono sarebbe opportuno, invero necessario, cercare di tacere.