Nel 2015 l’afflusso in Europa di un milione di rifugiati ha acceso i riflettori sulla posizione della Turchia all’interno del sistema internazionale delle migrazioni. La relazione tra la Turchia e i flussi migratori ha una storia molto complessa. Certamente si tratta di una storia di emigrazione testimoniata, ad esempio, dalla presenza nei Paesi europei di circa 3 milioni e 500 mila turchi, dei quali 800 mila con la doppia cittadinanza, conseguenza di un processo iniziato nei primi anni Sessanta, che tuttavia mostra da anni una drastica riduzione. Ma c’è dell’altro.

Nel contesto di una crescita demografica che ha portato la popolazione dai 13 milioni del 1923, anno di fondazione della Repubblica, ai 74 milioni odierni; fin dagli anni Cinquanta il Paese ha vissuto, e in parte continua a vivere, anche imponenti movimenti migratori interni e processi di urbanizzazione, dei quali Istanbul rappresenta solamente il caso più eclatante.

Sebbene quasi cancellata dalla memoria pubblica del Paese, la storia della Repubblica poi è anche una storia di immigrazione. Dalla seconda metà dell’Ottocento al 1923 circa 4 milioni di turchi e musulmani – circassi, tartari, bosniaci, albanesi – in fuga dal disfacimento dell’Impero ottomano si sono rifugiati in Anatolia, dove contemporaneamente le politiche nazionaliste dell’agonizzante impero avevano quasi annientato la plurisecolare presenza armena e greca. Questi rifugiati sono conosciuti con il nome di muhacir, termine che nel Corano si riferisce ai compagni che hanno seguito Maometto nella sua fuga dalla Mecca a Medina. Successivamente, dal 1923 al 1997, sono stati 1 milione e 600 mila gli immigrati arrivati sempre dagli ex territori ottomani, in particolare dai Balcani. A differenza dei loro predecessori, questi rifugiati vengono chiamati col termine turco moderno di göçmen (migranti).

A regolare i nuovi arrivi e la loro integrazione è la legge del 1934 sull’insediamento, che attribuisce lo status di migranti solamente a «individui, nomadi e tribù legati alla razza turca e persone legate alla cultura turca». La legge costituisce uno dei pilastri dell’ingegneria demografica volta a rendere omogenea la popolazione della Repubblica e rappresenta, sostanzialmente fino ai giorni nostri, il riferimento principale delle politiche migratorie turche.

Nei tardi anni Ottanta, il disfacimento del mondo socialista e l’instabilità di molti vicini mediorientali hanno contribuito a modificare la posizione della Turchia nel sistema internazionale delle migrazioni. Le prime avvisaglie si erano già avute alla fine degli anni Settanta, quando circa un milione di cittadini iraniani in fuga dalla rivoluzione khomeinista sono transitati dalla Turchia prima di raggiungere destinazioni europee e americane. Tra il 1998 e il 1991, dopo non poche resistenze motivate da preoccupazioni securitarie, la Turchia ha poi accolto temporaneamente all’interno del suo territorio 500 mila curdi iracheni. Successivamente è stata la volta decine di migliaia di profughi bosniaci e kosovari, accolti però questa volta con l’opaco statuto di ospiti (misafir) – un segnale di un cambiamento in atto nelle politiche migratorie.

Nei primi anni Novanta l’introduzione poi di un visto turistico (sticker visa) automaticamente rilasciato alla frontiera ha modificato profondamente la natura delle frontiere del Paese, fino ad allora quasi ermeticamente sigillate. La novità era motivata dalla convinzione che liberalizzare la circolazione di beni e persone avrebbe avuto un impatto positivo sull’economica del Paese che da alcuni anni, abbandonata l’autarchia dei decenni precedenti, si era orientata verso il libero mercato e le esportazioni. L’introduzione dello sticker visa in effetti ha fatto crescere in modo esponenziale gli ingressi. A fare la parte del leone sono stati i cosiddetti «commercianti con la valigia», uomini e soprattutto donne, in particolare provenienti dalle ex Repubbliche sovietiche, che venivano in Turchia, soprattutto a Istanbul, ad acquistare beni di consumo da rivendere in patria, creando un giro d’affari annuo stimato tra i 4 e i 6 miliardi di dollari. Con il tempo poi una parte di questi «commercianti» ha trovato occasioni di lavoro in diversi settori, facilitata dalla presenza di una vasta area di economia informale.

Nello stesso periodo poi la Turchia è diventata progressivamente un corridoio di transito soprattutto per cittadini iracheni, afghani e, almeno in parte, iraniani. Di fronte a questo fenomeno le autorità turche hanno optato per una strategia ben nota anche a molti Paesi europei, cioè hanno scelto di chiudere gli occhi.

 

[Riproduciamo l'incipit dell'articolo di Fabio Salomoni pubblicato sul “Mulino” n. 1/16, pp. 173-181. L'articolo completo è acquistabile qui, l'intero fascicolo qui]