Gli anniversari sono trappole retoriche per definizione ma, nel caso dei tre anni di Jorge Mario Bergoglio al timone della barca di Pietro, oltre allo sbadiglio si rischia di andare fuori rotta. In effetti è da tempo, quasi subito dopo il 13 marzo 2013, che si tenta di celebrare e catalogare il fenomeno Francesco; eppure lui resiste a qualunque presa. Del resto è sempre in movimento, e quando uno si muove in continuazione è arduo fissarlo, infilzarlo in qualche categoria. Molto meglio, come ha fatto Roberto Benigni, sia pure in una di quelle solenni liturgie editoriali, stare all’evidenza: «Cosa sta facendo papa Francesco? Che compito si è dato? Che cosa c’è nel centro, nel cuore del suo ministero? Verso dove sta andando Francesco? Perché non c’è dubbio che Francesco sta camminando verso qualcosa, e non si ferma mai. Lo vedete quando cammina che a volte sembra quasi portasse un peso […] È il peso di Dio che lo porta. E allora lo sta portando, e Francesco cammina cammina, a volte sembra davvero affaticato, e lo è, perché? Perché sta tirando tutta la Chiesa con sé, la sta traghettando verso un luogo verso il quale ci eravamo quasi dimenticati, non ci pensavamo più: la sta tirando verso il cristianesimo!». Cammina cammina: movimento continuo verso una destinazione paradossale.

E forse non è un caso che un attore, alla lettera uno che agisce, abbia colto quello che tanti osservatori non vedono, fermi come sono allo sforzo di comprendere. Per tacere dei giornalisti in genere e dei vaticanisti in specie i quali, salvo rare eccezioni, continuano a navigare col pilota automatico secondo la logica di palazzo, il palazzo in cui prende forma l’architettura del potere sacro, il sacro palazzo che solidifica il principio di autorità.

L’enfasi è ancora tutta sul magistero pontificio. Fa niente se l’ospite di Santa Marta non perde occasione per far capire che il papa non è un distributore automatico di verità eterne, un fornitore a getto continuo di parole più o meno vincolanti, colui che ha un parere infallibile su tutto e su tutto pontifica. Che poi questa è la caricatura del magistero e tuttavia il vescovo di Roma, invece che ingaggiare una disputa in punta di dottrina per smascherare il pilota automatico degli interlocutori, si sposta di lato, lascia emergere l’altro lato: il ministero. È il lato che mostra ogni giorno, ovunque si trovi. È il taglio a secoli di paradigma autoritario in favore di una nuova forma ecclesiae: la misericordia. Quando poi sente la necessità di argomentare la dialettica magistero/ministero sceglie con cura il luogo e il momento per una lezione magistrale. E strada facendo non perde uno iota del dogma ma quando s’imbatte in qualche dottore della Legge sorride e ribatte: io seguo quello che dice la Chiesa… Difficile, quasi impossibile, tenerlo fermo. Francesco non è il motore immobile dell’istituzione ecclesiastica ma il pastore mobile di un gregge che, al 99%, è ormai fuori dal recinto. «Fuori! Dobbiamo uscire!», sprona i suoi. Perché c’è solo la strada a misurare la bontà dell’impresa.

Di fronte a questo stile radicale, per certi versi profetico, che senso ha farsi venire un’ansia compilatoria o una sindrome da bilancio? Aspettiamo almeno che esca di scena… Solo allora qualcuno (lui stesso?) scriverà il racconto del pellegrino. Ma adesso a cosa serve tentare di riassumere le tematiche, i filoni, gli ambiti di questa tappa del ministero petrino? Contano di più i poveri o il creato, la geopolitica o la critica al sistema economico? E cosa scegliere tra viaggi discorsi udienze documenti prediche? Tanto viene già tutto inventariato in tempo reale sul sito della Santa Sede – beh, non proprio tutto, ci sono interventi non secondari che restano fuori dagli archivi ufficiali, Bergoglio è debordante per lo stesso sistema chiamato a servirlo. Dunque come scegliere, cosa scegliere di questi tre anni a tutta birra, tenendo conto che i fuori programma (lettere, telefonate, colloqui, uscite) contano quanto l’agenda ufficiale? Domande vane di fronte a un uomo che fa della cultura dell’incontro uno stile di vita, non un contenuto formale (e se proprio vogliamo l’analisi: a quando una fenomenologia del corpo di Jorge Mario Bergoglio, il suo non verbale o il suo carisma?). Missionario della misericordia, prete callejero, predicatore itinerante: Francesco non sta mai fermo, come Gesù nel Vangelo di Marco. A costo di inciampare, di sporcarsi le mani, di rischiare qualche incidente o di arruolare lungo la via personaggi discutibili.

Insomma, «predicate sempre il Vangelo, e se fosse necessario anche con le parole», come ha detto più volte citando Francesco d’Assisi. Ma si fa presto a ribaltare la prospettiva. Il pensiero incompleto, la realtà che supera l’idea, avviare processi invece che occupare spazi, la comunione delle differenze: ci vuol poco a ridurre i vettori del dinamismo bergogliano a slogan, a cristallizzarli nei cliché del nuovo corso. Nuovo corso che in effetti rischia di impantanarsi in una politica dell’immagine apparecchiata dal qualcuno del suo entourage più furbo che saggio. Mentre le uscite migliori restano le sue, e sono tutt’altro che estemporanee. Fin dagli esordi. A margine della Gmg di Rio incontrò i giovani argentini e li incitò ad «hacer lío» che non è banalmente «fare casino» ma uno «smuovere le acque» che ha un’interessante risonanza evangelica.

Agitare, smuovere, far uscire. La spinta centrifuga che Bergoglio ha dato a una Chiesa paralitica è sotto gli occhi di tutti e più passa il tempo e più ci si rende conto che non smetterà, non si fermerà finché ne avrà le forze. Quindi non c’è da agitarsi. Oppure sì, nel senso di stare al gioco, farsi afferrare dal movimento invece di guardarlo tranquillamente dall’alto, balconear per usare un suo neologismo (movimenta il dizionario perché non trova le parole per dire la sua urgenza). E «agitare prima dell’uso» andrebbe scritto come avvertenza su qualunque prodotto del marketing bergogliano – esiste, è in espansione ed è una faccia del fenomeno Bergoglio, personaggio ad alto tasso di contraddizione cresciuto tra Perón e de Lubac.

Il suo è un dinamismo che a volte si colora di stacanovismo ma non somiglia mai a una trottola impazzita. L’uomo ha metodo. È metodo: argentino di ascendenza piemontese, un po’ salesiano e molto gesuita, vero animale metropolitano. Senza dimenticare che si muove in continuazione anche per non farsi impallinare dai cacciatori in agguato dentro e fuori il recinto ecclesiale, tattica di guerriglia maturata negli anni della dittatura argentina e poi dell’ostilità curiale. E che spesso si rifugia nell’occhio del ciclone, da lui stesso innescato, per pregare. Perché azione e contemplazione si impastano in questo missionario mistico degno della tradizione ignaziana, uno à la Pierre Favre. Agire, uscire. Da Francesco stesso, in fondo. Dalla papolatria come culto trasversale della società dello spettacolo al ministero petrino come tesoro di una Chiesa sinodale: questa è la direzione di marcia.

Seguo Francesco da tre anni ininterrottamente, giorno dopo giorno sono sulle sue tracce; eppure mi trovo costantemente spiazzato, sorpassato, incalzato. L’invenzione del quotidiano, per dirla con de Certeau, fa girare la testa. Ma dovrebbe far muovere i piedi. Sono gli effetti non collaterali di una rivoluzione di stile molto più temeraria, e promettente, di qualunque programma di riforma (parola che non a caso lui usa con parsimonia). Tre anni con Bergoglio. Di già? Eppure è meglio un rilancio di un bilancio. Il primo asseconda il movimento, il secondo rivendica una sosta, una tregua. Ma chi si ferma è perduto. Lui, noi.