Lo scorso dicembre la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato un decreto del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti contenente le "Disposizioni per il definitivo completamento dei programmi di riqualificazione urbana" (Pru). È una buona notizia? Non proprio: gli interventi da completare furono finanziari, con 288 miliardi di lire, ventiquattro anni fa dalla legge n. 179 del 1992 (norme sull'edilizia residenziale pubblica). Quei denari rimettevano in circolo fondi non spesi stanziati con un decreto legge del 1983, cioè trentatrè anni fa.Per impiegarli, nel dicembre 1994 l'allora ministero dei Lavori pubblici emanò un bando, destinato ai comuni, per finanziare opere di urbanizzazione primaria e secondaria e interventi di edilizia residenziale e non residenziale per migliorare e riqualificare i contesti urbani. Per la loro realizzazione fu previsto il ricorso all'accordo di programma, una procedura amministrativa utilizzata di norma per accelerare l'avvio dei lavori. I quali, malgrado ciò, non sono ancora tutti iniziati o finiti, sebbene siano già state concesse due proroghe del termine per il completamento dei programmi: nel maggio 2007 fu spostato in avanti di 4 anni e mezzo e poi, nel 2012, fino al 31 dicembre 2014.

Questo non breve allungamento dei tempi non è stato però sufficiente. Tant'è che ora il ministero ritiene "opportuno accogliere le richieste volte a favorire comunque il completamento e l'avvio di opere pubbliche dotate della necessaria copertura finanziaria nei casi di dimostrata loro cantierabilità in tempi brevi". Questa condizione dei tempi brevi è quasi beffarda. Il nuovo calendario verrà deciso dagli stessi promotori degli interventi, i quali, con l'approvazione dei cronoprogrammi dei lavori, fisseranno anche le nuove date per la loro conclusione.

Siamo in presenza di un caso di eccezionale mala gestione di un certo numero di interventi edilizi finanziati con un vecchio programma di investimenti pubblici? No, questo è un caso esasperato di una condizione di diffuso ritardo nell'attuazione di molti programmi. Per documentarlo basta dare un’occhiata, sul sito del ministero, ai risultati del monitoraggio (il cui aggiornamento è sempre in ritardo) degli altri interventi finanziati nel tempo. Prendiamo due esempi. Nel 2009 furono ripartiti tra le regioni circa 200 milioni di euro per la ristrutturazione delle case popolari sfitte e per fronteggiare l'emergenza abitativa. Agli inizi di aprile dello scorso anno solo due regioni avevano realizzato lavori per almeno il 90% dei finanziamenti ricevuti, dieci non sono arrivate a spenderne il 70%.

Sempre con l'intento di alleviare l'emergenza, nel 2006 ai comuni metropolitani furono stanziati 100 milioni di euro per accrescere l'offerta di abitazioni a canoni più bassi di quelli di mercato. Sei anni dopo (24 maggio 2012, data dell'ultimo monitoraggio pubblicato dal ministero), per nessun programma era stata chiesta la quota del finanziamento erogabile al collaudo delle opere realizzate e solo in quattro casi era stata erogata la quota prevista per l'inizio dei lavori. L'elenco potrebbe continuare anche con altri programmi avviati a cavallo del passaggio da un secolo all'altro.

Queste situazioni sono una dannazione alla quale non si può sfuggire? Per evitare che tra vent’anni, o anche solo tra cinque, un certo numero di progetti finanziati oggi non sia ancora completato, o neppure avviato, occorrerebbe agire su diversi livelli. Innanzitutto sulla selezione dei progetti da finanziare. È difficile ottenere risultati apprezzabili ponendo, nei bandi, vincoli stringenti sui tempi di apertura dei cantieri e di esecuzione dei lavori. C'è un evidente svantaggio, un'asimmetria informata, dell'autorità che finanzia rispetto a quella che richiede il finanziamento, la quale pur di ottenerlo può essere disposta a mentire sui tempi reali di realizzazione dell'intervento e sul reperimento delle eventuali altre risorse necessarie.

I bandi possono però penalizzare, con l'attribuzione di un punteggio negativo, i progetti presentati dagli enti che non sono stati in grado di spendere nei tempi previsti i fondi ricevuti con finanziamenti precedenti. La penalità può essere graduata fino a impedire la partecipazione ai bandi dei comuni, delle regioni o degli altri enti pluri-recidivi e con macroscopici sforamenti dei tempi. Ma ci sarà un governo disposto a essere ritenuto tanto politicamente scorretto da applicare una tale penalizzazione?

Se non si riesce a prevenire, occorre almeno essere disposti a intervenire nell'immediatezza del momento in cui l'ente disattende la prima scadenza prevista per la realizzazione di un intervento. Il bando per l'attribuzione del finanziamento dovrebbe prevedere, in quel caso, la nomina di una specifica autorità per l'esecuzione dei lavori nei tempi previsti, con l'automatica revoca del finanziamento qualora dovesse accertare che non può essere recuperato il ritardo e rispettare le scadenze successi. Anche se non si riuscisse a recuperare interamente le eventuali somme già anticipate, questo non sarebbe un danno economico e sociale meno grave che tenere bloccati per anni e anni risorse che non si sa se e quando saranno utilizzate?