Nuovi scenari in Medioriente? Il Medioriente si muove. Israele fa altrettanto? La domanda è fondata, a osservare anche solo superficialmente qual è lo stato dell’arte in campo internazionale. Mentre Hillary Clinton annuncia la sua prossima visita in Turchia – Paese che ha dato recentemente più di un segno di insofferenza nei confronti di Gerusalemme – i palestinesi cercano ora di superare

quello stallo politico che da quasi tre anni a questa parte li aveva connotati con una iniziativa forte, destinata quanto meno a stemperare la suicida contrapposizione tra Hamas e al Fatah. Le dimissioni del premier Salam Fayyad, uomo legato all’Olp, dovrebbero permettere di compiere un passo in avanti sulla strada di una qualche riconciliazione, ancorché temporanea. Si profila un fragile governo di unità nazionale che potrebbe però giocare due carte fondamentali: il sostegno, sia pure indiretto, dell’Amministrazione americana e la possibilità di spendere i denari promessi da molti paesi per la «ricostruzione di Gaza». Peraltro tra Usa e Siria parrebbe essere sopraggiunto il tempo del disgelo poiché la missione americana a Damasco, ancorché timida (due esponenti di medio-alto livello del nuovo governo obamiano), ha dichiarato che forse nuovi orizzonti si aprono ai «volenterosi», espressione che, nel linguaggio dei neodem, vuol dire tutto fuorché l’esibizione muscolare. Insomma, si prospetta uno scenario di tessiture diplomatiche, di nuove intelaiature in divenire. Quel che è certo è che gli americani hanno ben poca voglia di lasciare tutto immutato. Anche perché la stasi equivarrebbe alla diffusione del morbo della crisi politica ed economica, sul quale soffiano i movimenti del radicalismo islamista e l’Iran di Ahmadinejad. Sullo sfondo incombe inoltre la lunga transione egiziana, il dopo-Mubarack che sta già nelle agende degli analisti. Ci vorranno anni ma occorre mettere in moto fin da adesso una macchina negoziale complessa. In tutto questo, se Atene non piange (più), la novella Sparta, ossia Gerusalemme, sarà capace se non di ridere almeno di sorridere? La campagna militare a Gaza, del gennaio scorso, dal punto di vista israeliano ha prodotto risultati sufficienti: Hezbollah si è ben guardato dal fare alcunché mentre Hamas, che ha subito una serie consistente di rovesci sul campo, ha dovuto scendere a patti con i “cugini” separati della Cisgiordania. Come gestire questo scenario dal punto di vista gerosolomitano, sapendo che l’onda lunga delle opportunità durerà non più di un anno? Non è peraltro un caso se nelle settimane scorse sia circolato il rapporto dell’Unione europea, che denuncia Israele e la sua politica a Gerusalemme Est, volta al fatto compiuto, ovvero all’acquisizione del controllo territoriale attraverso l’ormai tradizionale politica di espansione degli insediamenti residenziali ebraici. 

La formazione del governo si rivela, com’era prevedibile, assai difficile e laboriosa. Del tutto improbabile che Tzipi Livni ne entri a far parte essendo, delle elezioni del 10 febbraio, l’unica vera, solitaria vincitrice. Ha incassato il voto dell’elettorato di centro-sinistra, in uscita dal Labour, e si appresta a fare la parte della leader di quest’area. Può quindi guardare oltre, confidando nel fatto che se nulla dovesse intervenire la durata della legislatura è destinata ad essere breve. Più premiante, per lei, lasciare quindi ad altri l’ingrato compito di rosolarsi sotto il sole di una litigiosa maggioranza, fatta a mo’ di bricolage. Ehud Barak, leader di quel che resta dei laburisti, ha invece aperto all’ingresso del suo partito in una sorta di grande coalizione il cui baricentro, però, sarà inevitabilmente rivolto a destra. È il segno, se mai ce ne fosse bisogno, che Avodà sta malissimo, essendo ridotto a cercare di fare l’ago della bilancia (13 deputati su 120) di una coalizione altrui, di colore opposto. Avigdor Lieberman ha chiesto per sé un dicastero di primaria grandezza ed è certo che l’otterrà. Se dovesse essere quello degli Esteri è plausibile che l’imbarazzo degli americani non tarderebbe a manifestarsi. Benjamin Netanyahu, nel qual caso, dovrà spendere tutta la sua fama di «americano» per rendere compatibile il leader populista agli interlocutori statunitensi. Una concessione che per lui stesso potrebbe risultare alla lunga indigesta essendo il capo di Israel Beiteinu un uomo assai poco propenso alle fedeltà e molto attento ai segni che l’elettorato in continuazione manda ai suoi rappresentanti. 

Insomma, se Netanyahu ha ricevuto l’incarico, e se è improbabile che dica di no alla conclusione assai prossima del periodo di consultazione, facendosì così investire del ruolo di nuovo Premier di Israele, non di meno la sua vittoria del 10 febbraio potrebbe rivelarsi effimera. Accettando di fare il Primo ministro in una situazione così complicata, infatti, si assumerebbe su di sé tutti gli oneri e le incertezze del caso. D’altro canto i cavalli azzoppati sembrano essere quanto di meglio al momento la politica israeliana riesce ad offrire ai suoi elettori. Il punto è uno ed uno solo: sapranno fare una corsa seguendo le nuove regole che gli amministratori del condominio mediorientale, a partire dalla Clinton, vera anima “nera” di Obama in quella regione, imporranno ai contendenti, ora tutti posizionati ai nastri di partenza?