Un’altra epoca, un’altra storia. La cosiddetta area Schengen, che sancisce la libera circolazione delle persone, è figlia di un mondo diverso dall’attuale. L’accordo venne firmato da cinque Stati (i tre del Benelux, Francia, Germania) nel 1985. Via via, vi aderirono altri Paesi, come l’Italia nel 1990. Divenne operativo, gradualmente, durante la nostra seconda Belle Époque: gli anni Novanta. Era un’epoca in cui l’ottimismo era giustificato: l’Europa era dinamica e in crescita, non c’erano minacce militari da parte di Stati o organizzazioni terroristiche transnazionali, i flussi migratori verso l’Europa erano minimi. Schengen, forse più della moneta unica, diventò il simbolo di un’Europa che si era lasciata alle spalle (o così sembrava) rivalità e diffidenze, per non parlare delle guerre che, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, l’avevano dilaniata per un millennio e mezzo. Un’Europa che poteva finalmente fare a meno delle frontiere interne.

L’accordo di Schengen - incorporato poi nel trattato di Amsterdam - prevedeva anche un graduale rafforzamento dei controlli sulle frontiere esterne del Vecchio Continente, ma questo, in tempi di pace, non era un tema prioritario. Naturalmente non era vero che le diffidenze fossero finite. La storia pesa sempre. Il segnale arrivò forte e chiaro con il referendum francese del 2005 sul trattato costituzionale europeo: le polemiche sul (leggendario) «idraulico polacco» pronto a calare in Francia per togliere posti di lavoro ai francesi, segnalarono che una cosa era la retorica europeista e un’altra ciò che passava per la testa degli europei.

In ogni caso, il mondo in cui è sorto Schengen non esiste più. La domanda dovrebbe essere: come si fa a non gettare via il bambino insieme all’acqua sporca; a salvare il salvabile di Schengen, come andrebbe fatto per ragioni economiche ma anche simboliche (ristabilire le frontiere interne significherebbe la fine dell’integrazione europea), adattandolo però ai tempi? Le notizie in arrivo dall’incontro informale di Amsterdam fra i ministri dell’interno dell’Unione sono cattive. Per i pessimisti Schengen è già morto; per gli ottimisti è solo sull’orlo del baratro, anche se occorre che qualcuno, in fretta, tiri fuori un coniglio dal cilindro. Se resterà solo la proroga a due anni delle sospensioni di Schengen decise dai Paesi nordici tutto sarà finito. L’Unione si dissolverà con un crescendo di accuse incrociate, insulti e rancori.

Il «coniglio» potrebbe essere rappresentato dalla decisione di imporre immediati controlli europei ai «varchi», greci o italiani non importa. La proposta di un corpo di polizia europea di frontiera è la più sensata fra quelle in agenda. Si sacrificherebbe un aspetto più simbolico che effettivo della sovranità nazionale, ma con un sicuro vantaggio collettivo. I controlli sulle frontiere esterne sono un «bene pubblico» europeo e tocca all’Unione, non ai singoli Stati, occuparsene. E in fretta, non essendo pensabile che Italia e Grecia possano fare da sole. Occorrerebbe anche rassicurare i cittadini sul fatto che, Schengen vigente, il coordinamento europeo per il controllo sugli spostamenti degli individui considerati pericolosi diventerà molto più efficace.

Da approfondire è infine la proposta di un piano di investimenti in Medio Oriente e Africa per bloccare i flussi migratori: è grande il rischio di fallire, di arricchire involontariamente mafie locali e terroristi senza benefici per le popolazioni. Tutto ciò richiederebbe comunque forti investimenti, possibili solo se le opinioni pubbliche dei Paesi che oggi giocano a scaricabarile si convincessero dei danni (economici e non solo) che la fine di Schengen comporterebbe per tutti.

Se non vogliamo fare dello sterile moralismo, dobbiamo però renderci conto delle difficoltà. La prima ha a che fare con il funzionamento della democrazia. Possiamo chiamarla la legge del «danno sfasato»: non paga mai chi rompe il vaso e i cocci restano sempre a qualcun altro. Una classe politica di governo può benissimo rendersi conto del danno che un certo evento - come, per l’appunto, la fine di Schengen - arrecherebbe nel medio termine al proprio Paese. Ma resta il fatto che oggi quell’evento genera consenso e quindi il politico pensa di doverlo perseguire. Quando arriveranno i danni, probabilmente al governo ci sarà già qualcun altro. In altre parole, chi governa al momento è soprattutto impegnato a mettere pezze per rimediare ai danni emersi oggi, ma provocati dalle decisioni di chi governava ieri. A sua volta, quel mettere pezze sul momento, per lo più, prepara i danni che sarà chiamato a fronteggiare chi governerà in futuro.

Mentre gli antieuropeisti più accesi si agitano di fronte a opinioni pubbliche (comprensibilmente) spaventate dagli eventi, servirebbero agli uomini di governo coraggio e carisma per convincere gli europei che se saltasse l’Unione staremmo tutti peggio, che praticare lo scaricabarile è controproducente, così come lo è restare immobili fingendo che il mondo sia lo stesso di prima.

C’è poi l’errore di quelli che credono che «tutto si aggiusterà» comunque, perché gli interessi economici in gioco sono così forti da imporre ragionevolezza e compromessi. Chi la pensa così ricorda coloro che, alla vigilia della Prima guerra mondiale, credevano che i Paesi europei avessero troppo da perdere e che, per questa ragione, il conflitto non sarebbe mai scoppiato. Le paure collettive, il senso diffuso di insicurezza a fronte di minacce e pericoli incombenti, sono altrettanto importanti degli interessi economici nel determinare gli esiti politici.

Per bloccare un’Europa che da tempo scivola lungo un piano inclinato, occorrerebbe un’alleanza fra politici europei disposti a cambiare tanto e a giocarsi tutto, senza reti sotto. Basta enunciare il problema per capire quanto sia difficile risolverlo.

 

[Questo articolo è uscito sul «Corriere della Sera» il 27 gennaio]