Oggi, venerdì 29 gennaio, si incontreranno Matteo Renzi e Angela Merkel. Non ho dubbi che verranno appianate le incomprensioni suscitate dai toni da Gianburrasca del nostro premier nelle sue critiche a Juncker e alla Commissione e, indirettamente, anche alla politica tedesca. Credo però che i problemi veri che i due statisti dovranno affrontare saranno quelli cui facevo riferimento nel mio articolo che il "Corriere" ci ha dato il consenso di ripubblicare qui di seguito. Con diplomazia, ma con chiarezza, il nostro premier deve convincere la Kanzlerin che egli è, come lei, impegnato allo stremo, in un contesto assai difficile e ostile, in una politica filoeuropea e ha bisogno di portare a casa qualche risultato per presentarsi con speranza di successo alle prossime elezioni.

Sulla questione delle banche si è trovato un compromesso. Lo si dovrà trovare anche sulle frontiere esterne dell’Unione, la gestione dell’immigrazione e su altre questioni contingenti, in cui dovrà farsi uso di discrezionalità intelligente più che di rigido rispetto delle regole. Il 2016 è un anno difficile per i grandi Paesi europei, anche perché porta alle elezioni politiche del 2017 in Germania e in Francia. C’è l’incognita del referendum inglese. Ma se nel 2018 ci trovassimo con un’Inghilterra ancora europea, una Spagna che ha superato l’attuale fase di incertezza, e Francia, Germania, Italia con governi filoeuropei, forse si creeeranno le condizioni di stabilità politica per mettere mano a una revisione dei Trattati. Oggi, ovviamente, la situazione è prematura per un confronto diretto. Ma non è prematuro discuterne e prepararsi al confronto.

 

Europa/Italia [Dal "Corriere della Sera" del 19 gennaio]

Passerà rapidamente, almeno lo spero, lo stato di tensione cui sono giunti i rapporti tra il nostro governo e la Commissione europea e Renzi imparerà, anche questa è una speranza, che i rapporti internazionali non sono gestibili con lo stile da Gianburrasca che egli spesso usa negli affari interni. Al di là di espressioni inopportune, non c’è però stato un azzardo politico neppur lontanamente paragonabile a quello greco e di conseguenza non è necessaria l’inversione di rotta (e la perdita di credibilità) che Tsipras e il suo Paese hanno dovuto subire.

Ma non passerà affatto, anzi è destinato a inasprirsi, lo stato di crisi dell’Eurozona, che è alle origini delle tensioni ricorrenti nei rapporti tra Commissione europea e Paesi forti, da un lato, e Paesi deboli, dall’altro.

L’origine della crisi è ben nota e sta nello stesso trattato istitutivo dell’Unione economica e monetaria: anche in assenza di un’unione fiscale – nessuno dei Paesi firmatari era pronto all’unione politica che questa avrebbe richiesto – si sperava che le regole definite a Maastricht e le loro successive modificazioni avrebbero consentito ai Paesi dell’Eurozona una crescita forte ed equilibrata. Questa speranza era teoricamente infondata e comunque non ha resistito alla crisi economica e finanziaria nel 2008: senza una vera unione fiscale e una banca centrale che funzioni come prestatore di ultima istanza, ogni Paese risponde da solo dei debiti emessi dal suo governo, dalle sue banche, dalle sue imprese, anche se essi sono denominati nella moneta comune.

Il dubbio che il Paese debitore non sia in grado di onorarli, e la quasi-certezza che non riceverà alcun aiuto (o aiuti insufficienti) dall’Unione e dalla Banca centrale, provoca inevitabilmente un aumento dei tassi di interesse, un rarefazione del credito e un arresto della crescita. Dunque una situazione di asfissia. Ai singoli Paesi sono stati tolti gli strumenti con i quali, prima dell’Unione, essi affrontavano le crisi macroeconomiche – la politica monetaria, la svalutazione e l’intervento dello Stato – ma, in assenza di una vera unione politica e fiscale, non ne sono stati trovati altri che consentano di affrontarle all’interno delle regole che l’Unione si è data sinora.

Nessuno rimpiange la situazione precedente: svalutazione, disavanzi e debito sono solo modi per aggravare e rinviare al futuro problemi di riforma strutturale che un Paese è incapace di affrontare. Ma l’idea che ne diventi capace e con conseguenze benefiche che maturino in tempi brevi – questo è l’obiettivo che dovrebbero porsi i Paesi più deboli, secondo il mainstream ordoliberale – mentre è stretto nel corsetto normativo delle regole attuali non funziona. Essa avvantaggia Paesi che sono entrati nell’Unione in una situazione più competitiva – debiti pubblici moderati, maggiore flessibilità salariale, migliore organizzazione industriale, una amministrazione pubblica più efficiente – nei confronti di quelli che dovrebbero raggiungere questi obiettivi mentre la loro attività economica langue e la disoccupazione aumenta: inevitabilmente la moneta unica avvantaggia i primi e danneggia i secondi. E ciò rende più evidente un problema di democrazia che esiste comunque: decisioni che comportano conseguenze gravi per intere nazioni sono prese senza che i loro cittadini le abbiano approvate in una Camera elettiva con reali poteri di scegliere gli indirizzi del governo europeo.

Per risolvere sia il problema di squilibrio economico sia quello di deficit democratico è necessaria una revisione profonda dei trattati istitutivi dell’Unione europea. Una revisione che crei, alle spalle dell’unione monetaria, una vera unione fiscale: senza di questa un’unione monetaria non funziona. Già lo si sapeva, ma ora è evidente. E neppure funziona un’unione fiscale se non è sorretta da un forte consenso politico nei Paesi che vi aderiscono. Un vaste programme, avrebbe detto De Gaulle, anche se inizialmente limitato a una parte dei paesi che oggi fanno parte dell’Unione europea. Sono pronte Francia e Germania – Paesi essenziali in qualsiasi disegno di unione fiscale: Italia e Spagna sicuramente seguirebbero – a compiere questo passo? La propensione della Francia a non abbandonare le vestigia più appariscenti della sovranità nazionale è un tratto antico e ben noto dei suoi rapporti con l’Europa. Non così per la Germania: ma in questo Paese sono i timori che un’unione politica seria ostacoli la strategia economica neomercantilistica che esso persegue e che altri paesi approfittino a sue spese della maggiore mutualità che è implicita in una unione fiscale a creare gravi ostacoli a una revisione dei trattati che vada al fondo dei veri problemi dell’Unione.

Di fronte a queste difficoltà che cosa fare? Nella sua intervista a “Repubblica” dell’11 gennaio il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi ha dichiarato che l’Italia promuoverà una modifica dei Trattati europei a partire dal 2017, quando si celebrerà il sessantennio del Trattato di Roma e le linee di modifica cui ha accennato sembrano quelle sui cui insiste Sergio Fabbrini (si vedano Which European Union, Cup, 2015 e numerosi articoli su “Il Sole – 24 Ore” e altrove). Siano o non siano queste, la posizione del governo va comunque rapidamente definita, resa pubblica e oggetto di una paziente ricerca di consenso. Solo così la ricerca di maggiore flessibilità a breve – oggetto degli scambi irritati tra Renzi e Junker - potrà inquadrarsi in una costruttiva visione di lungo periodo.