Sul «Corriere della Sera» di giovedì 7 gennaio, Alberto Alesina ha proposto che per aprire un conto corrente bancario si debba disporre di una «patente finanziaria» che attesti l’acquisizione di un minimo di competenze in materia, onde evitare di farsi imbrogliare da promotori finanziari poco scrupolosi o addirittura disonesti. Le crisi bancarie di questi mesi hanno riproposto una questione che già da tempo preoccupa il mondo finanziario e bancario, non solo italiano: come vendere prodotti finanziari sempre più complessi a una popolazione finanziariamente analfabeta.

Già dal 2011 l’Ocse ha istituito un International Network for Financial Education che ha promosso varie indagini sulle competenze finanziarie in diversi Paesi. Sull’esempio dell’Ocse, in Italia l’Abi, attraverso il Consorzio Patti chiari, ha affidato a un gruppo di ricercatori delle Università Cattolica e Bicocca di Milano il compito di esplorare Le competenze economico-finanziarie degli italiani (Bancaria Editrice, 2014). In questo ambito, gli italiani ottengono punteggi più bassi rispetto ai partner europei, tuttavia le distanze non sono drammatiche; piuttosto si evidenzia chiaramente che gli uomini sono assai più competenti delle donne e che c’è una forte correlazione della competenza in materia finanziaria con l’istruzione e il reddito disponibile. Ma probabilmente erano dati immaginabili.

È più che comprensibile che le associazioni bancarie si occupino di educazione finanziaria. Non solo per rendere i risparmiatori meno incauti, ma anche per ricostruire un po’ di fiducia dei cittadini, che dalla crisi del 2008 si è costantemente logorata

È più che comprensibile e forse anche utile che le associazioni bancarie si occupino di educazione finanziaria. Non solo per rendere i risparmiatori meno incauti quando vogliono investire i loro soldi, ma anche per ricostruire un po’ di fiducia dei cittadini nel sistema creditizio-finanziario, fiducia che, dalla crisi del 2008 ad oggi, si è costantemente logorata, non tanto a causa dell’incompetenza dei risparmiatori, quanto degli azzardi speculativi di cospicui settori della finanza globalizzata. Ne hanno discusso recentemente a Roma nell’ambito di Economix, giornate dell’educazione finanziaria, esponenti del mondo bancario e delle fondazioni.

C’è una cosa però che Alesina e i promotori dell’educazione finanziaria quasi sempre non dicono: che l’educazione finanziaria è parte dell’educazione economica e che l‘educazione economica è parte dell’educazione alla cittadinanza. Promuovere la prima senza pensare ai contenitori all’interno dei quali acquista un significato non puramente strumentale e settoriale è un errore grave. Perché il signor Mario R. deve essere messo in guardia dal sottoscrivere un modulo che gli propone degli investimenti azzardati e non anche dal firmare un contratto di lavoro, di assicurazione, di affitto o di compravendita di un immobile, senza sapere bene di che cosa si tratta? E i suoi diritti come consumatore, ma anche i suoi doveri come contribuente? E come fa a convincersi che è bene pagare le tasse se non sa cosa sia un bilancio pubblico, cosa sia il debito pubblico, come si distribuisce la spesa pubblica, quanto costano la scuola, la sanità e le pensioni? E come si inquadra il tutto nel sistema delle istituzioni, nazionali, europee e mondiali?

Ci sono vari esempi di proposte intelligenti e attraenti per fare educazione economica. Suggerisco di andare a curiosare nel sito di un’iniziativa americana che usa i cartoon per insegnare l’economia. Il «Sole – 24 Ore» pubblica ogni domenica una rubrica (Junior24) di «economia spiegata ai ragazzi». Ma l’economia, per quanto importante, non è tutto. In Germania c’è addirittura una Centrale federale per la formazione politica (Bundeszentrale für Politische Bildung) che produce settimanalmente materiale per le scuole, le università, gli istituti tecnici, le istituzioni per l’educazione degli adulti. In Italia, c’è assai poco. Qualche insegnamento nei licei a indirizzo economico e sociale e qualche cenno nelle proposte iniziali per la «buona scuola». Dobbiamo iscrivere anche queste nel catalogo delle buone intenzioni che non hanno avuto seguito?