Ho il massimo rispetto per il mondo della cooperazione internazionale e per le decine di migliaia di persone che vi investono tempo, risorse, energie, spesso in situazioni di altissimo rischio, come dimostrano i tanti cooperanti rimasti vittime in questi anni del terrorismo e della barbarie. Proprio per questo la continua esposizione del corpo di bambini poveri e denutriti allo scopo di alimentare il circuito delle donazioni e delle adozioni a distanza mi provoca inquietudine e irritazione. Mentre proteggiamo con determinazione i volti e le fattezze dei «nostri» bambini (con tanto di segni grafici atti a nasconderne l’identità), non esitiamo a esibire le pance deformi, le gambe magrissime, gli occhi scavati degli «altri» bambini. Mi si obietterà che tutto ciò viene fatto a fin di bene, per far entrare nelle nostre case il dramma della fame e della miseria e scuoterci così dall’indifferenza e dal torpore. Ma è proprio su questo che avanzo le mie più radicali riserve, perché il quadro che quei messaggi delineano configura una sorta di «ricatto morale»: la vita di quel bambino, il cibo per nutrirlo, l’acqua per dissetarlo, le medicine per guarirlo dipendono dai 9 euro al mese che ciascuno di noi è invitato a donare. La responsabilità è tutta sulle nostre spalle. Dietro a quei volti non c’è una storia, un’analisi, una rivendicazione di giustizia.

Ma cosa rappresentano questi 9 euro, se non il prezzo della nostra cattiva coscienza? È come se l’erogazione di quella somma ci esentasse da ogni altro impegno per dare un contributo di altro tipo, per quanto velleitario possa essere considerato, all’introduzione nel mondo (e in quelle terre in particolare) di quella aspirazione alla giustizia che ormai è stata completamente cancellata da ogni rappresentazione della povertà e della miseria, sostituita dalla compassione, dal mecenatismo, dal paternalismo, dall’esibizione della misericordia (magari griffata, sponsorizzata e rilanciata in diretta). Nella presentazione di quelle immagini e nel loro contesto comunicativo c’è tutta la resa della nostra capacità di interpretare criticamente la realtà. La completa rinuncia a un’interpretazione sociale e politica del mondo.

Per di più, a questo fenomeno di oscena ostentazione si accompagnano metodologie sempre più aggressive di richiesta di sostegno alle varie Ong impegnate nella cooperazione internazionale (comprese prestigiose agenzie che si battono per i diritti civili e importanti associazioni mediche che intervengono nelle zone calde del mondo). Con tecniche da «vendita per strada» ragazze e ragazzi spesso sprovveduti ti abbordano invitando a sottoscrivere per questa o quella «buona causa», come se certi impegni non dovessero accompagnarsi a elementi di riflessività e di consapevolezza e potessero viceversa essere carpiti con la stessa persuasività suggestiva con cui si estorce un corso di inglese o di informatica. Mi chiedo se questo non abbia qualcosa a che vedere con il mantenimento di quella che si presenta a tutti gli effetti come una nuova «burocrazia» che, per quanto ben intenzionata, ha bisogno comunque di perpetuare se stessa. Non deve forse esserci una coerenza profonda tra una «buona causa» e i mezzi per promuoverla? E quando questi degenerano così profondamente questo non finisce per sporcare inevitabilmente il fine che si pretende di perseguire?

Alla fine, ed è l’aspetto più grave e deleterio, assistiamo alla cancellazione della dimensione pubblica dei problemi che vengono esibiti. Nell’epoca della globalizzazione e delle comunità virtuali anche questo ci ricorda la raggelante solitudine in cui ci ha precipitato la crisi di qualunque impianto politico ispirato alla giustizia e all’uguaglianza.