Il negoziato, in sotterranea gestazione da una decina d’anni, tra governo Usa e Commissione europea per la stipulazione di un trattato detto Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) fu avviato ufficialmente nel 2013 da Barack Obama e Miguel Barroso allo scopo di eliminare “inutili ostacoli” tariffari e non (cioè restrizioni quantitative e divergenti standard normativi) allo scambio di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti. Lo scopo liberalizzatore era più esplicitamente dichiarato dal titolo originario: Transatlatic Area of Free Trade (Tafta), in analogia a consimili trattati “regionali” di libero scambio fortemente voluti dagli Stati Uniti, come il Nafta.

Pur incontrando qualche ostilità anche negli Stati Uniti, esso nasce indubbiamente dalla iniziativa politico-diplomatica nordamericana – come del resto avvenne per i precedenti analoghi trattati “regionali” e il recentissimo “gemello” Transpacific stipulato tra Stati Uniti e numerosi Paesi asiatici (Cina esclusa, et pour cause).

Secondo alcuni commentatori, l’interesse statunitense al Ttip è motivato anche dall’attuale squilibrio, a favore dell’Europa, della bilancia commerciale: l’Unione europea esporta per 310 miliardi di euro e importa per 204 miliardi: una differenza di un terzo, non esigua. Almeno in parte, il dato può contribuire a spiegare la simmetrica resistenza, diffusa in diversi ambienti europei, anche imprenditoriali – in particolare delle Pmi. Di contro, peraltro, think tanks autorevoli come l’Aspen Institute o il Center for Economic Policy Research Center di Londra, argomentano la previsione di un notevole aumento dell’export europeo, pari a circa il 30%.

 

In votis, il negoziato dovrebbe concludersi entro il 2015, per poi passare al vaglio del Congresso americano e a quello del Parlamento europeo, dal quale si sono peraltro già levate diverse voci ostili, non solo da parte “verde“.

Ora, la “riservatezza“ del processo negoziale non consente di fare previsioni temporali: certo è che la qualità delle questioni tuttora irrisolte è tale da non far pronosticare tempi brevi. A meno che qualche innovazione di metodo intervenga a diluire gli effetti paralizzanti degli attuali ostacoli (come dirò).

Ad attenuare lo spessore del velo di segretezza dipinto dai negoziatori (esso stesso oggetto di critiche vivaci, non sempre peregrine, in nome della democraticità di processi decisionali di così vasta portata economica e sociale), agli inizi di ottobre di quest’anno l’Ue ha ufficialmente diffuso un documento con le linee direttive impartite ai suoi negoziatori. Da questo e da altre notizie filtrate da alcuni media e centri di ricerca e di “attivisti sociali” è possibile tentare di ricostruire almeno alcune delle principali criticità del cammino negoziale, per cercare di contribuire a un approccio razionale al tema. Un tema troppo spesso dominato da superficiali quanto fastidiose contrapposizioni, con toni da Religionskriegen, tra mantra libero-scambisti da un lato, e “al lupo, al lupo” dall’altro.

Saggiamente, il negoziato ha via via lasciato fuori dall’ambito del Trattato materie nelle quali le distanze apparivano, da un lato, incolmabili, dall’altro riguardavano settori oggetto di “irrinunciabili” rivendicazioni di sovranità europea, e talora anche nazionale: quelle, ad esempio, dell’istruzione e del lavoro. (Su quest’ultima, che comprende le relazioni sindacali, la Cgt francese fece rilevare che gli Stati Uniti non hanno ratificato la maggior parte delle norme fondamentali dell’Organizzazione mondiale del lavoro.) Non ultimo, è stato eccettuato il tema dei prodotti e servizi audiovisivi, oggetto di “riserva nazionale” francese, a difesa della sua tradizionale exception.

Pur dopo questi ed altri sfrondamenti, allo stato attuale il processo negoziale incontra diverse difficoltà salienti, alcune incentrate su divergenze normative su standard di sicurezza di prodotti e servizi – in particolare, ma non solo, nel campo agroalimentare –altre sulle procedure contenziose. Si pensi, ad esempio, alla pratica di somministrazione di ormoni al bestiame, ammessa negli Stati Uniti e vietata in Europa, o al “lavaggio alla clorina” del pollame, vietato in Europa, ma obbligatorio negli Stati Uniti. O alla question célèbre degli Ogm. Oppure alla diffusa, e lì legittima, prassi dell’industria alimentare americana, di utilizzare denominazioni tipiche di prodotti di Paesi europei protette (abbastanza) gelosamente dalle normative nazionali e comunitaria. Un tema, questo, particolarmente rilevante per l’Italia,come noto la maggior detentrice mondiale di Dop e Igp. E sul quale sembra non facile comporre la posizione difensiva europea con quella americana cui ha dato voce, ex multis, l’autorevole senatore Paul Ryan del Wisconsin (uno Stato grande produttore lattiero-caseario): «We are going to keep making gouda in Wisconsin. And feta, and cheddar, and everything else [parmigiani, all’erta!] we do not allow these countries – to use this kinds of improper barriers to block U.S. dairy exports» (il corsivo è mio). Alle resistenze di produttori agro-alimentari statunitensi  che mobilitarono una nutrita e bi-partisan schiera di membri del Congresso a scrivere al presidente chiedendogli di “non firmare” il riconoscimento delle esclusive europee su Dop e Igp) si sono aggiunte le preoccupazioni di sindacati Usa timorosi di un’“invasion” di prodotti di qualità europei, indotta dalla eliminazione dei dazi e dei contingenti di importazione.

Altre divergenze di peso riguardano i servizi finanziari, rispetto ai quali si misurano nette divergenze nella tutela degli investitori fra la ben più “regolatoria” Europa e la più “liberista” America (anche se un poco meno rispetto all’era Greenspan). E qui, proprio il ricordo della grande bouffe dei derivati legati alla incontrollata espansione dei mutui immobiliari – entrambe sfuggite all’occhio dell’infallibile guru, e della Securities Exchange Commission – e quello delle conseguenze mondiali nefaste che ne derivarono –quel ricordo, dicevo, non aiuta a immaginare, allo stato attuale, una “transazione” non sacrificale per gli investitori/risparmiatori europei.

Ancora, in Europa suscita forte resistenza la proposta americana di consentire a colossi della finanza (di regola tutti domiciliati in una stretta viuzza presso la punta Sud di Manhattan) di promuovere contenziosi arbitrali direttamente nei confronti di Stati che abbiano attuato legislazioni ritenute dannose per quegli investitori internazionali (cd. Investor-to-State Dispute Settlement, Isds). Un tipo di contenzioso che sembra peraltro modellato su quello inaugurato nel 2009, in Europa, da un gruppo svedese contro la Germania, rea di aver deciso l’abbandono del nucleare. Prospettiva inquietante, per molti Stati europei, ove si pensi alla potenza economica, e quindi al peso politico-diplomatico, di titani multinazionali: potenza e peso inevitabilmente condizionanti i grandi arbitrati internazionali.

E così dunque, direbbe Massimo Bordin, man mano il negoziato procede, a fronte di alcuni scogli rimossi dalla “regulatory cooperation” istauratasi tra gli sherpa (guidati da Ignacio Garcia Bercero e da Dan Mullaney), impegnati nella ricerca di convergenze e/o possibili mutui riconoscimenti di regole e standard nei vari settori dei prodotti e dei servizi, altri si mantengono tuttora fermi.

Faranno fallire il negoziato? O lo faranno trascinare sine die, in attesa che il progresso tecnologico si incarichi di superare le divergenze di standard, o una nuova tempesta finanziaria convinca a scrivere un Testo Unico transatlantico della disciplina e della vigilanza del settore?

Osservando mio nipote Pietro realizzare con assoluta perizia costruzioni progressivamente più complesse con i mattoncini Lego, mi sono chiesto – confrontando le materie e le questioni sulle quali l’accordo c’è ed è vicino, con quelle di ancora lontana possibile conciliazione – se non si possa immaginare una stipulazione “a contenuto progressivo”. Se sia saggio rinunciare, ad esempio, all’immediato abbattimento di dazi e contingenti di importazione, e dunque a un incremento degli scambi e (tendenziale) diminuzione di prezzi, solo perché i negoziatori non riescono ad accordarsi su come lavare i polli. Vale la pena di rimandare una parte già significativa in attesa del “tutto”? Insomma, ben potrebbe il Trattato essere stipulato, intanto, su quel che è stato concordato, lasciando proseguire i negoziati sulle altre questioni, e così poi recepire via via, a foglia di carciofo, il frutto delle convergenze future.

Una seconda riflessione, e un suggerimento accessorio. C’è divergenza e divergenza. Prendiamo il caso degli standard di sicurezza. Alcune differenze non legittimano, a ben vedere, timori di gravi rischi, scientificamente comprovati, per gli utenti. Per queste, una adeguata informazione al consumatore – dall’etichetta alla pubblicità (anche comparativa!) – potrà segnalare, spiegandola, la diversità di metodi produttivi, e lasciare quindi il consumatore stesso libero di scegliere. Questo approccio potrebbe essere considerato, a mio personale avviso, anche a proposito dei prodotti contenenti Ogm. Della presenza anche solo di tracce di questi, si informi con chiarezza e, ovviamente, si indichi la provenienza del prodotto stesso. Con chiarezza, non con caratteri illeggibili, o annunci vocali semi-subliminali. A quel punto li si potrà importare: i seguaci di Umberto Veronesi, e quelli di Carlo Petrini, potranno compiere la scelta dettata dalle loro proprie convinzioni. Scelta libera: appunto perché informata.