Boko Haram in Niger, fra minaccia e strumentalizzazione. Con un bilancio di più di 70 morti in due settimane, sono ripresi a fine settembre gli attacchi di Boko Haram, l'insorgenza salafita nigeriana, in Niger e in Ciad. Sono più di 50 le aggressioni perpetrate dal gruppo di Shekau in territorio nigerino dall'inizio del 2015. Per comprendere la dimensione internazionale della lotta di Boko Haram, occorre risalire al gennaio di quest'anno, quando Boko Haram lancia una violenta offensiva lungo le sponde del Lago Ciad, che Amnesty International definirà “la più distruttrice” mai perpetrata dal gruppo fin dall'origine dell'insurrezione nel 2009: 16 villaggi rasi al suolo, centinaia di vittime, 3.700 edifici distrutti e quasi 20.000 sfollati. La coalizione internazionale per combattere Boko Haram, voluta da Parigi e guidata dal Ciad – alleato fedele, il cui impresentabile profilo in materia di rispetto dei diritti umani è tranquillamente sottaciuto a fronte della comprovata efficacia militare –, si posiziona al confine nigerino, a pochi chilometri dal quartier generale nemico. Agli inizi di febbraio, per ritorsione gli islamisti porteranno i loro attacchi per la prima volta sul suolo del Niger, a Bosso e a Diffa. Si apre così l'ennesimo fronte militare di uno degli Stati più poveri del mondo: circondata da focolai di tensione, Niamey è già impegnata ad evitare uno spill-over potenzialmente devastante delle guerre civili in Libia e in Mali.

Il 10 febbraio, il Parlamento di Niamey vota lo stato di emergenza nella regione di Diffa, la più povera, isolata e meno scolarizzata del Paese. Le misure adottate includono il divieto di circolare in moto, ritenuto il mezzo di trasporto e assalto preferito dai terroristi. Centinaia di giovani che lavoravano come conducenti di moto-taxi si ritrovano così disoccupati. Ironicamente, quindi, alcuni andranno a infoltire le fila di Boko Haram, che offre un salario invidiabile di circa 450 euro al mese (il doppio di un funzionario di carriera in Niger), la promessa di un ordine politico mondato dalla corruzione terrena e una sposa (più o meno consenziente) senza l'onere della dote: nella tradizione delle popolazioni Hausa, infatti, un matrimonio può costare fino a 1.000 euro, e la retorica di sobrietà e eguaglianza sociale di Boko Haram rappresenta una seduzione indiscutibile per dei giovani che la povertà aveva escluso dalla cerchia della rispettabilità sociale. La chiusura delle frontiere, estesa alla regione di Zinder in aprile e maggio, spingerà le residue attività economiche nelle braccia accoglienti del mercato nero, rimasta l'unica valvola di sostentamento di un'economia fondata sullo scambio. Boko Haram ne approfitta, e riesce a monopolizzare il contrabbando delle principali produzioni della regione: peperone e pesce essiccato. Si ritiene che siano proprio queste le principali voci di entrata del budget di Boko Haram, insieme ai bottini di rapine e del racket dell'estorsione ai danni dei ricchi mercanti del nord nigeriano.

Il supporto delle popolazioni locali, ottenuto più spesso con il ricatto e la minaccia che con la persuasione ideologica, viene superficialmente interpretato dalle autorità locali come una forma di complicità potenzialmente eversiva. Per “prosciugare l'acqua in cui nuota il pesce della ribellione”, il governo nigerino si serve allora di tattiche contro-insurrezionali approssimative amministrate in modo rudimentale: le popolazioni delle aree sensibili sono sbrigativamente evacuate, specialmente a seguito degli attacchi perpetrati da Boko Haram sulle isole del Lago Ciad a fine aprile. 25.000 persone sono costrette, manu militari, ad abbandonare case, campi e bestiame, da cui dipende la loro sopravvivenza, senza alcuna forma di indennizzo. L'improvvisazione della manovra non mancherà di suscitare le serie preoccupazioni dell'Onu e delle organizzazioni umanitarie. Le organizzazioni nigerine di difesa dei diritti umani denunciano gli abusi e le condizioni di precarietà cui sono soggetti gli sfollati, sfidando la retorica governativa. Fra maggio e giugno gli autori dei rapporti saranno prelevati dalla polizia e detenuti, senza processo, per un paio di settimane.

Si tratta dell'applicazione, tutt'altro che imprevedibile, delle draconiane leggi anti-terrorismo in vigore dal 2011, adottate dalla giunta militare allora al governo su sollecitazione di Parigi, a seguito del rapimento di due francesi a Niamey, nel gennaio dello stesso anno. Tale normativa autorizza a comminare fino a quattro anni di detenzione preventiva, senza processo, a coloro che sono “sospettati” di terrorismo, per giunta sulla base di una definizione incerta e generosa. Disegnate inizialmente per servire nella lotta contro Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), le misure repressive sono state strumentalizzate con lo spostarsi progressivo delle emergenze nazionali, per colpire strategicamente esponenti della società civile indipendente o dell'opposizione parlamentare. Nel corso del 2014, ad esempio, vengono vietate le manifestazioni di piazza, e il leader dell'opposizione è costretto a scappare a Parigi. Nel frattempo, l'ansia securitaria ha consentito di far lievitare il budget della difesa, moltiplicato per dieci nella più completa mancanza di trasparenza sulle destinazioni degli investimenti. Nel contesto di urgenza, i militari rimangono intoccabili dalla giustizia, sebbene molti generali siano sospettati di partecipare, attraverso la protezione selettiva, alla spartizione dei proventi dei lucrosi traffici di droga, sigarette, benzina e merci contraffatte che interessano il Niger. In un Paese che, in poco più di mezzo secolo di indipendenza, ha conosciuto cinque colpi di Stato militari, la crescente deriva securitaria rappresenta un presagio inquietante in vista delle elezioni del febbraio prossimo.