Vi è oggi l’idea che la vita scorra a una velocità maggiore che in passato. Ci lamentiamo costantemente di non aver tempo sufficiente per fare quello che dobbiamo, di vivere a un ritmo sincopato. Il libro di Judy Wajcman Pressed for time, uscito nel 2014, si interroga su questo tema analizzando in particolare il rapporto che abbiamo con le nuove tecnologie digitali, che, tra le altre cose, dovrebbero consentire di rendere più facili e veloci i contatti, la soluzione di problemi, ecc. In realtà, parallelamente al proliferare delle tecnologie, ci ritroviamo con la sensazione di avere sempre meno tempo per noi.

Come mai la tecnologia ha reso le nostre vite sempre più affollate e piene di impegni invece di aiutarci ad alleviare i vincoli e a trovare una soluzione ai problemi? La diffusione di smartphone, tablets, ecc. produce in molti di noi la percezione di un processo di accelerazione della vita quotidiana in tutte le sue dimensioni. Molti conoscono bene il panico che suscita l’impossibilità di essere connessi e di contattare gli altri costantemente; anche se, contemporaneamente, ci si sente oppressi e prigionieri delle nuove tecnologie digitali che impongono di rispondere e connettersi tutti i giorni a tutte le ore, producendo così la convinzione che la vita oggi si svolga con ritmi intollerabilmente più rapidi e pressanti a causa delle nuove tecnologie, che vengono percepite come una delle cause principali di questa accelerazione.

Nascono galatei e codici di comportamento digitale: in Danimarca non si scrive e si risponde alle mail di lavoro durante il fine settimana; quando andiamo in vacanza inseriamo una frase automatica per giustificarci del non rispondere immediatamente. Abbiamo comunemente la sensazione di essere più oberati di compiti, ma in realtà gli studi sull’uso del tempo ci dicono che mediamente non è aumentato il tempo dedicato al lavoro, alle attività domestiche, ecc. È paradossale che ci si senta ostaggio delle nuove tecnologie digitali quando invece la sensazione di essere costantemente sotto pressione e pressati dal tempo dipende da noi, dalle priorità e dalle aspettative sociali che costruiamo, e non dalle tecnologie che utilizziamo per perseguire i nostri obiettivi. Ci sentiamo prigionieri di un mondo materiale con il quale dovremmo recuperare un rapporto strumentale.

Nelle società occidentali contemporanee essere molto occupati, non avere tempo libero, è divenuto un simbolo di prestigio. In una cultura che esalta la produttività come valore, non avere un attimo di respiro, avere vite piene di impegni è un tratto positivo, è uno status symbol. Il tempo è denaro per chi è occupato, per gli inoccupati il tempo deve essere ammazzato, bisogna tirare sera. Liberarsi da alcune costrizioni relative alla vita sociale, pagando altri perché lo facciano per noi (le faccende domestiche, la cura dei bambini e degli anziani, cucinare, ecc.), ci libera del tempo che può essere occupato in attività più remunerative e dunque più prestigiose. L’uso del tempo diventa così un ottimo indicatore delle disuguaglianze sociali nelle società capitalistiche contemporanee, dove paradossalmente, come già segnalava Mary Douglas, più sei povero più hai tempo; non a caso il disoccupato è la persona che non sa come occupare il tempo. Del resto, come sostiene anche Putnam nel recente libro Our kids, “internet facilita la circolazione di informazioni, ma non è condizione sufficiente per creare relazioni vere nè per arricchire il capitale sociale, abbattendo i muri della diversità”.