Bologna è smart? Ci sono molti fatti a sostegno di questa tesi. Nel 1995 Bologna ha lanciato “Iperbole” ‒ la prima rete civica italiana ‒ quando ancora Internet era poco diffuso tra la popolazione e le amministrazioni cominciavano appena a porsi il problema di come sfruttare le nuove tecnologie. Nel 2015 ha rilanciato Iperbole con un concentrato di servizi e informazioni online in chiave “social”: i cittadini hanno uno strumento di condivisione e di consultazione a loro completa disposizione. La rivoluzione del 1995 si è dunque tradotta e sedimentata in un buon livello di smartness.

Nel 2011 il Comune di Bologna ha avviato il primo percorso partecipato all’Agenda digitale attraverso una serie di incontri e iniziative per raccogliere le conoscenze e le energie locali e per fare leva sul potenziale di partecipazione delle nuove tecnologie. In questo senso, si coglie perfettamente lo spirito della strategia “Europe2020” con cui si indicano gli obiettivi di sviluppo da raggiungere entro il 2020. Nella primavera del 2011 proprio a Bologna si tiene uno dei tre eventi “Digital Agenda Going Local” che la Commissione europea ha organizzato per illustrare i punti chiave dell’Agenda digitale. In più, dal 2013 Bologna ospita la “Smart city exhibition” (quest'anno dal 14 al 16 ottobre) dove si confrontano idee e progetti per lo sviluppo e la realizzazione delle città intelligenti.

Bologna sarà smart in futuro? Ci sono altri fatti che mettono in dubbio la reale volontà e capacità di realizzare la città di domani. Citiamo solo due esempi, uno di carattere generale e uno più puntuale.

Si continua a parlare di infrastrutture come perno di sviluppo, commettendo due errori. Il primo è identificare il mero accesso alla Rete come necessità primaria ed esclusiva di una smart city quando invece ciò di cui si ha bisogno va oltre la tecnologia di connessione (per esempio, la fibra ottica). L’altro errore è mettere in secondo piano le competenze digitali con cui i cittadini dovrebbero poi usare le smart cities. In sostanza, l’equazione tra digital divide e accesso alla Rete è drammaticamente riduttiva.

Si offre un servizio online, ma lo si fa pagare maggiorato. È il caso di MyCicero che si proclama “l’assistente personale per accedere ai servizi smart della tua città”, una app attiva in molti centri italiani. Permette, per esempio, di pagare la sosta dei parcheggi con lo smartphone e di allungare la sosta senza dover uscire dall’ufficio in caso di bisogno. Dal 13 aprile 2015 il servizio online costa 0,12 euro in più all’ora, oltre la normale tariffa di sosta. Solo a Bologna. Perché? La causa sembra essere la nuova politica tariffaria di Tper (Trasporto passeggeri Emilia-Romagna) di cui il Comune è sicuramente a conoscenza. Il punto è che non si può promuovere l’idea di una città smart se poi si affossano i servizi che effettivamente la renderebbero tale. Anche perché ci sono accordi commerciali (è degli ultimi giorni la pubblicità del servizio MyCicero da parte di CartaSì) che si inseriscono ‒ e ribadiscono ‒ l’esistenza di “progetti Smart City” nazionali e locali.

Ragionare di agenda digitale e di smart city è necessario, ma deve essere fatto in un’ottica integrata tra online e offline in cui si offrano servizi abilitanti per i cittadini, soprattutto oggi che la sfida della città metropolitana è aperta e tutta da giocare.