Nelle strane ore che hanno seguito il referendum greco, tra stappi di champagne e lexotan, le ragioni del «ni» hanno faticato a trovare cittadinanza. Per lo meno da noi, gli stessi italiani che prima del voto erano ben contenti di non essere greci, a pochi minuti dallo spoglio non hanno mancato di schierarsi, vestendo Tsipras con i propri costumi regionali. Questa manichea appartenenza politica transnazionale creatasi attorno ad un evento più plebiscitario che democraticoè esattamente il limite culturale contro cui rischiamo di suicidarci, disuniti ma almeno stavolta tutti assieme.

Le ragioni del «ni» sono le ragioni di chi riconosce ai greci una buona dose di coraggio e a Tsipras un’ammirevole coerenza politica, senza però giungere per questo alla conclusione che quel coraggio e quella coerenza siano la panacea di tutti i mali. Le ragioni del «ni» sono quelle di chi non crede ai turning point della Storia (o per lo meno non alla Storia nitidamente percepita nel suo scorrere), le ragioni di chi è convinto che il referendum greco non ponga un problema nuovo ma sia sintomo di una latenza antica (la costituzione europea), senza però nascondersi che, come saggiamente ricordato dal presidente Mattarella, proprio per questo ci stiamo addentrando in acque sconosciute. Sono, infine, quelle di chi non ha paura delle ragioni dei greci (comprensibili) e delle sue conseguenze (ignote ma non per forza deleterie), ma non si fida della combriccola di stranieri che sono immediatamente accorsi a metterci il cappello sopra, nel tentativo non di europeizzarsi – sarebbe bello – ma di capitalizzare quella vittoria su scala locale, possibilmente in chiave antieuropea.

Agli estremisti dello status quo (grigi europeisti di barrosiana memoria, ahinoi maggioranza nelle istituzioni di Bruxelles) tanto quanto ai variopinti capi popolo nazionali (conseguentemente in crescita in ogni arena di competenza), sarebbe bello che qualche politico europeo contrapponesse una nuova geografia politica genuinamente «oltre». Potrebbe cominciare a farlo qualche esponente italiano, dato che è ad Altiero Spinelli che è intitolato il primo ramo del Parlamento europeo di Bruxelles. Nel 1940, mentre il nazismo dominava il continente, tre ragazzi al confino di Ventotene azzardarono queste parole:

«La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale […] e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».

Il muro è caduto e da allora nessun Manifesto viene più preso sul serio. Ma il materiale teorico e concettuale per costruire una narrazione altra ci sarebbe: sarebbe compito delle élite politiche europee servirsi dei cardini del federalismo europeo (anche a proprio uso e consumo) per uscire dalle secche create dalla loro stessa povertà intellettuale. L’affermazione può sembrare presuntuosa, ma è tragicamente giustificata dai fatti: a fronte di una Germania che ha scommesso sull’inesistenza dei greci – di fatto invitandoli a sconfessare il governo votato solo qualche mese fa – i «patrioti» internazionali del «no» sono stati lieti di descrivere il fallimento di questo piano con categorie novecentesche: un «popolo nazionale» che ha avuto il coraggio plebiscitario dell’«autodeterminazione». Come spiegare, se non con il costante degrado del dibattito politico continentale, l’incosciente riattualizzazione dei controversi concetti di «popolo» e di «nazione» come se a seguito di due guerre mondiali il principale merito del paradigma europeo non fosse stato proprio quello di traghettarci oltre i miti politici del Risorgimento? Come capacitarsi del fatto che nessun «europeista italiano» che si trovi di fronte all’antico mantra leghista secondo cui ovunque ci si sia rivolti ai «popoli» questi hanno votato contro l’Europa, non sia in grado di replicare che dei 36 referendum tenutisi dal 1972 a oggi su materie europee, solo 9 ebbero esito negativo? Qualcuno se la ricorda la Convenzione del 2002-2003? Qualcuno si ricorda il referendum da cui Mitterand fece passare il trattato di Maastricht? Se gli «europeisti» ignorano le proprie ragioni, chi sui temi europei è senza argomenti diventa libero di dire ciò che vuole: è quello che sta accadendo, oramai da anni.

Nella più totale assenza di una memoria europea, per quanto le ragioni del «no» siano in buona parte anche le ragioni di un’Europa politica in grado di dirsi tale, per quanto Tsipras si sia sforzato, candidandosi alle europee dell’anno scorso, di portare in Europa il tema Grecia, il «no» del 5 luglio è stato letto, anche dai suoi sostenitori, in chiave nazionalista. Questo è il problema. Chi si esalta per il fatto che sei milioni di greci hanno messo in scacco un governo sostenuto da almeno 40 milioni di tedeschi – sì, anche la Merkel ha un «popolo», e stando a criteri democratici, all’«Europa dei popoli», il più pesante – non comprende che è proprio il metodo dei veti incrociati codificato dai trattati intergovernativi su cui ci muoviamo a rendere il Consiglio dell’Ue un luogo politicamente asfittico, a lasciare agli Stati membri più forti la possibilità di occupare lo spazio europeo.

Ora, se lamentarsi dei deficit democratici del sistema senza porsi il problema di modificarlo è tipico di chi l’Europa non la vuole – si chiami Grillo, Farage o Le Pen – chi l’Europa ha ancora voglia di farla è bene che vada a studiarsi i precedenti storici, perché dalla Comunità Politica europea (1954) al progetto Spinelli (1984) fino al Trattato Costituzionale (2004), più di una volta il «gene costituzionale» inserito dai padri fondatori nell’Europa funzionalista (Ceca-Cee-Ce-Ue) ha rischiato di cristallizzarsi in un Tratto costituzionale d’ispirazione federalista. Come ha ben spiegato Emma Bonino, il problema, ieri come oggi, non è quello di sopperire con referendum nazional-plebiscitari alle mancanze della democrazia europea cui consensualmente abbiamo delegato parte delle nostre sovranità in nome di un mondo altro, ma è quello di sciogliere un compromesso che l’Europa a 28 e l’Europa dell’euro hanno spinto fino al punto di rottura. Un problema politico che non è stato posto né dai greci né dai migranti, ma che è antico come l’Europa.