Di una cosa possiamo dirci sicuri: nessuno ha la minima idea di come andrà a finire la crisi greca. Ci sarà un accordo per evitare l’uscita della Grecia dalla moneta unica? C’è ancora spazio per una soluzione che non si limiti a rimandare la catastrofe? Riusciranno i greci, che sono già duramente provati da anni di austerità e d’incertezza, a rimettersi in piedi, recuperando in tempi ragionevoli la capacità di stare al passo con le altre economie dell’Eurozona?Oppure dobbiamo rassegnarci all’idea che un’intera generazione di cittadini di uno dei Paesi membri dell’Unione europea sia destinata a unirsi al flusso di disperati che percorrono le rotte del Mediterraneo o le strade dei Balcani alla ricerca di un futuro migliore per sé e per i propri figli?

In questa situazione d’incertezza non sorprende che l’opinione pubblica italiana, che fino a tempi molto recenti era entusiasticamente pro-europea, s’interroghi su come ci siamo infilati in questo tunnel. Se gli errori commessi fossero evitabili. Chi sia da biasimare per un confronto che, comunque vada, proietterà a lungo la sua ombra sul processo di unificazione e sulle prospettive di un governo federale dell’Unione. Tra le riflessioni delle ultime settimane che ho letto sulla stampa italiana, due in particolare mi hanno colpito per l’efficacia e l’onestà intellettuale degli autori. Alludo alla nota di Paolo Pombeni, appena pubblicata dalla nostra rivista, e a un editoriale di Lucia Annunziata per l’«Huffington Post». Due autori lontani per storia personale e formazione professionale che convergono essenzialmente nel denunciare la fine del “mito” (l’espressione è di Pombeni, la Annunziata parla invece di un “canone”) europeo. La tesi di fondo di questi interventi è che la crisi che stiamo vivendo ha mutato profondamente la nostra (direi che il discorso vale in modo particolare per gli italiani) percezione del processo di unificazione dell’Europa. Finito il tempo del mito, o del canone, si entra in una fase nuova: quella del realismo politico, della riscoperta degli interessi nazionali e dei conflitti che essi inevitabilmente portano con sé.

L’Europa caduta dal cielo degli ideali è una cosa ben diversa, messa insieme con materiali di varia provenienza e di diversa qualità. Non la società ideale immaginata dai federalisti nel secondo dopoguerra, ma il risultato fortuito di interessi politici, disegni elettorali e politiche culturali nazionali, necessaria per le circostanze e possibile per via della prosperità.

L’espressione che ho richiamato è stata usata da Tony Judt. Proprio allo storico britannico, una delle menti più lucide che si sono applicate alle alterne vicende dell’unificazione europea negli ultimi decenni, si devono alcuni scritti che, con decenni di anticipo, affermavano l’esigenza di un approccio sanamente realistico e disincantato a questi temi. Le questioni erano già tutte sul tavolo alla fine degli anni Novanta: la crisi della partnership tra Francia e Germania che era stata, sin dai suoi primi passi, il motore dell’unificazione; l’emersione del secondo Paese come la potenza egemone sul piano economico, che finisce per destabilizzare i propri partner, ma è incapace di esercitare una vera leadership per i limiti della sua classe dirigente e per il peso della sua storia recente; la crisi del Welfare e l’aumento dell’immigrazione proveniente da Paesi extraeuropei; La possibilità che l’unificazione monetaria – Judt scriveva nel 1996 – avrebbe generato profonde fratture all’interno dell’Europa che nel tempo sarebbero state un potente fattore d’instabilità. Infine, l’ipotesi, verrebbe quasi da dire la profezia, che la grande trasformazione economica avrebbe lasciato la pesante eredità di un solco tra vincitori e vinti che avrebbe messo in pericolo la stessa tenuta delle istituzioni comunitarie, non adeguate a gestire in modo efficace spinte centrifughe così potenti.

Verso la fine di uno dei suoi scritti europei, appena ripubblicato in una nuova raccolta dei suoi saggi, Judt scriveva che il mito dell’Europa è un ostacolo al riconoscimento dei problemi che minacciano il futuro dell’Unione. Lo storico britannico non era il solo, alla fine degli anni Novanta, a lanciare un grido di allarme sulle sorti dell’Europa. Nello stesso periodo, Ralf Dahrendorf scriveva: «L’euro ha poco a che fare con l’Europa. Per l’Europa è importante mettere in primo piano altri progetti, riguardanti interessi comuni. Questo peraltro […] tornerebbe vantaggioso anche per quelli che sarebbero in grado di entrare nell’unione monetaria, poiché esiste una grande probabilità che il temerario esperimento fallisca. Ciò potrebbe accadere al più tardi quando i prevedibili oneri cui i membri del “nucleo duro” dovranno far fronte, sopratutto nel campo delle pensioni, investiranno i loro bilanci pubblici. Il Patto di stabilità, non c’è dubbio, funziona solo in teoria. E se dovesse effettivamente verificarsi il fallimento dell’euro, allora a rispondere del mucchio di cocci che resterà sul terreno dovrebbero essere i suoi inventori, e non l’Europa». Un giudizio durissimo, su cui si dovrebbe riflettere. Alla fine del mito non si può reagire tentando di sostituirlo con morality tales come quella delle cicale e delle formiche. La crisi è il risultato degli errori di una classe dirigente in preda all’illusione che fosse possibile sostituire al “governo delle persone l’amministrazione delle cose”. Soltanto la politica può risolvere una crisi le cui cause remote sono indubbiamente politiche.