«[L]a prima funzione della critica non è “di dire la verità al potere” – sai quanto gliene importa, oltre al fatto che lo sa già – ma la messa in questione di sé» (p. 75).

Anche per questa ragione il recente Stato di minorità di Daniele Giglioli  (Laterza, 2015) è un libro interessante. Affrontando il tema dell’azione, esso agisce – innanzitutto – se stesso, scavallando, consapevolmente, i confini tradizionali.Non è un saggio di critica letteraria; non è un pamphlet di filosofia politica, e nemmeno uno scritto di sociologia. Stato di minorità interpreta, innanzitutto, un’azione. Anzi, un’iniziativa, come l’autore traduce quella “possibilità di azione” che gli anglosassoni intendono con agency. Ed è un’iniziativa intrapresa su di una pluralità di piani: pur dichiarando di voler “limitarsi” a descrivere i sintomi che si manifestano in una società che avverte l’azione come impossibile, Giglioli pare... invocarla. Ed è in ideale risposta a quest’appello che ho deciso per questa breve nota.

La premessa che apre il libro è centrata su di un esperimento con i roditori (mi costituisco: ho un debole per gli artifici narrativi fondati sul comportamento animale; ritengo, ad esempio, che l’esperimento sulle scimmie e sull’uso del danaro – magistralmente narrato da Walter Siti in apertura a Resistere non serve a niente – sia un resoconto di rara potenza suggestiva). Nel caso riportato da Giglioli ci sono tre gabbie e tre topi. A tutti vengono inflitte scariche elettriche, solo che al primo ratto è concesso di fuggire dalla gabbia; al secondo viene accostato un altro topo sul quale sfogare l’aggressività; mentre al terzo... nulla. Ebbene solo quest’ultimo accuserà, nel tempo, una varietà di sintomi, dalla caduta di pelo all’ipertensione. Come dire: solo l’impossibilità di agire danneggia. Diciamolo meglio: solo l’impossibilità di agire ci danneggia.

Per analizzare le implicazioni politiche di questo assunto, Giglioli ricorre alla trama del Saggio sulla lucidità di José Saramago. Vi si immagina una città in cui gli elettori consegnano alle urne una quantità abnorme di schede bianche. Il potere impazzisce, immaginando complotti di sediziosi e scatenando il proprio apparato repressivo. Ma il risultato non cambia: anzi, alle elezioni successive, indette dopo l’annullamento delle prime, le schede bianche saranno ancora più numerose...

Cosa ci racconta quest’accattivante allegoria? Che non ogni esperienza del negativo è sempre, e solo, negativa. Che «non è il trauma a generare l’impotenza, ma è l’impotenza a generare il trauma» (p. 36). E che lo stato di minorità è determinato non tanto dalla qualità dell’evento, quanto dall’impossibilità di organizzare una reazione.

In tempi di discorsi sulla “fine della storia”, di reviviscenza di quel there is no alternative di thatcheriana memoria, ricordare che si nasce «nel già dato, in cui però non tutto è dato» (p. 86) appare un nobile richiamo. Lo spazio dell’azione è necessario – appunto – a vivere, e poco importa se il margine politico di quest’iniziativa sembra quasi rifugiarsi in quel ‘potere destituente’ sul quale la filosofia politica (e non solo) si è interrogata in anni recenti. Il libro di Giglioli non è – non vuole nemmeno apparire – consolatorio. Anzi, vi si mette in guardia il lettore che potrebbe aspettarsi «uno dei classici rovesciamenti dialettici in cui è specializzata la saggistica apocalittica: va tutto malissimo, però...» (p. 19).

Da ultimo, sebbene il volume non sia un dizionario delle idee, può essere letto – ed io così l’ho letto – almeno in parte, come tale.

Così, prendendo ad esempio la dipendenza dai gadget informatici, si ripropone il concetto di dispositivo che «non crea solo un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto». In altre parole, la libertà di ricevere sms, statuti facebook e tweet ha come contro-altare la totale dipendenza dai medesimi (il mondo tra le dita, salvo che le tue dita sono governate dal mondo). «“Disposto... disposto sempre all’ubbidienza” faceva dire al suo don Abbondio il genio linguistico di Manzoni – che infatti commentava: “E proferendo queste parole, non sapeva nemmeno lui se faceva una promessa, o un complimento”» (p. 25).

Ancora, il “sublime” indica il senso della dismisura, quel «piacere misto a pena» che il soggetto avverte di fronte ad uno spettacolo che eccede la propria sensibilità, o il proprio intelletto (p. 42).

O infine il “conflitto”, che lungi dal confondersi con lo “scontro” (che ne rappresenta una degenerazione), o con il “dibattito” (che ne rappresenta la parodia), riacquista, qui, una dimensione creativa: è solo attraverso di esso che si rende la possibilità di una trasformazione. Né c’è ragione di averne timore: «[n]on si sceglie una volta per sempre: si sceglie sempre» (p. 10).