Le notizie incrociate che vengono da Bruxelles e Atene non sono buone. Nonostante le dichiarazioni di facciata, le istituzioni europee si stanno preparando per la possibile uscita della Grecia dall’area euro, un fatto dato per più che probabile dall’industria finanziaria. In Grecia intanto ci si barcamena come si può, cercando di guadagnare tempo, tra mancanza di liquidità, pagamenti in scadenza e cambiamenti nella delegazione che discute con i successori della Trojka.

Il problema non è però nelle persone, e forse neanche nei numeri dell’austerity, quanto piuttosto nell’irriconciliabilità di due diversi approcci politici, e, soprattutto, nei meccanismi istituzionali della Ue.

La costruzione economico-politica su cui si basa l’euro è per molti versi simile a quella del Golden Standard: una moneta unica (non dissimile, nel suo funzionamento, dagli scambi ultra-fissi del Gs) in cui l’equilibrio dei conti – e la credibilità dei governi e delle istituzioni monetarie – è la garanzia indispensabile per il funzionamento del sistema.

In un mondo del genere è quasi inevitabile che le crisi – e qualsiasi genere di squilibrio – vengano risolte dal lato dell’offerta: svalutazione interna (austerity più «riforme») per guadagnare competitività, e scarico delle tensioni economiche sulla società: sul lavoro, ovviamente, ma in parte anche sul capitale «perdente». Una crisi di sistema e non solo di classe. Le alternative sono difficilmente praticabili. Nella logica del mercato unico senza Stato unico, una politica fiscale espansiva a livello nazionale non è concepibile perché la perdita di sovranità monetaria dei singoli Stati rende il debito potenzialmente insostenibile. Una politica fiscale «federale», così come una politica monetaria tradizionalmente «monetarista», ha il difetto di scaricare su altri Paesi il debito dei Paesi in difficoltà e non è dunque gestibile in termini geopolitici.

Il livello politico è fondamentale per la credibilità e la stabilità di tale sistema economico. Le pressione elettorali – per la protezione del lavoro, dei debitori, per l’aumento del debito – devono, inevitabilmente, essere stemperate, se non proprio silenziate. Non a caso le regole di bilancio erano la spina dorsale del Trattato di Maastricht, non a caso il six pack e il two pack, oltre i controlli preventivi sui bilanci pubblici, riducono ulteriormente lo spazio di manovra dei parlamenti nazionali.

Come ha ben spiegato Peter Mairnel suo ultimo saggio, Ruling the Void, l’Europa – e le sue regole – sono tradizionalmente argomenti «non contendibili» nello spazio politico nazionale, una cosa accettata da sempre dalle destre e sinistre cosiddette «di governo». Il livello nazionale deve essere «subordinato» a quello comunitario per mantenere la credibilità dell’unione monetaria e per evitare spinte centrifughe. Il rischio, paventato dalla struttura istituzionale europea, è che nel momento in cui i governi nazionali non accettino più il sistema di regole della Ue, l’Europa diventi una babele ingovernabile in cui l’interesse nazionale prevale sulla tenuta del sistema, proprio come avvenne per il Gold Standard. La vittoria di Syriza ha portato al potere un partito che dichiara apertamente di contestare le regole europee, rompendo per la prima volta questa convenzione non scritta sull’intoccabilità del livello europeo, e rappresenta dunque un potenziale vulnus per la compattezza della Ue.

Secondo lo storico dell’economia Barry Eichengreen, che ha ripreso in parte il lavoro di Karl Polanyi sulla Grande Trasformazione e sulla relazione tra economia e società, il Gold Standard si ruppe anche e soprattutto per l’emergere della democrazia e per le pressioni insostenibili contro l’ordine economico liberale: le richieste di salari maggiori e migliori condizioni di vita, che presero forza con l’introduzione del suffragio universale, erano incompatibili con una gestione «mercatista» dell’economia. L’Ue si trova, dunque, in una situazione simile, in cui la crisi economica ha ripercussioni politiche con spinte sempre maggiori per una gestione «democratica» della recessione. In questa logica, per evitare l’implosione dell’Unione, mantenere l’assetto istituzionale e punire «disciplinarmente» chi lo mette in discussione diviene più importante del preservare intatta l’area euro. Il peccato maggiore di Tsipras non è tanto chiedere un allentamento dell’austerity, quanto rivendicare il proprio mandato elettorale come paritario con le regole comunitarie. Bce e Ue hanno mantenuto in vita una Grecia con conti ben peggiori di quella attuale, ma sono disposti a farlo solo in cambio dell’accettazione delle regole del gioco.

L’alternativa, per la Grecia, è quindi molto semplice e allo stesso tempo impossibile: o abbandonare l’euro; o la resa totale, rinunciando a ogni pretesa di riforma che, data la natura della Ue, diventa automaticamente eversiva. Il compromesso non sembra a portata di mano.