1.  I criteri di giudizio. Al di là di inevitabili compromessi su aspetti specifici, necessari per ottenere i consensi sufficienti in Parlamento, il combinato disposto tra legge elettorale e riforma costituzionale va valutato in relazione a due aspetti: si inserisce coerentemente o no nella trasformazione costituzionale vissuta nel Paese? Presenta una lettura corretta dei cambiamenti del sistema dei partiti su cui pensa di incidere con un diverso sistema di incentivi?

 

2.  Le obiezioni di principio: coerenza tra le parti della Costituzione, Senato americano in una Costituzione parlamentare. Sul primo aspetto il cambiamento più significativo, che incide sia sulla forma di governo sia sul tipo di Stato, è il superamento del bicameralismo paritario. Esso risolve in radice il nodo di due maggioranze potenzialmente divaricanti e porta al centro del sistema, in Senato, i legislatori regionali, creando così quel luogo di raccordo istituzionale senza il quale il conflitto si scarica in modo abnorme sulla Corte costituzionale. Non ci occupiamo qui delle critiche di dettaglio (la composizione mista, i poteri del nuovo Senato, il nuovo Titolo V) ma solo degli argomenti contrari di principio, che in sostanza si riducono in sostanza a due e che si trovano condensati, ad esempio, nel testo di Nadia Urbinati su “Italianieuropei” (spec. pp. 106/108). Secondo questa ricostruzione i Costituenti avrebbero creato un sistema di intima coerenza tra la Prima e la Seconda Parte cosicché modificando quest’ultima si sovvertirebbe la prima e, in particolare, travolgendo l’elettività diretta del Senato, si creerebbe un forte scompenso. Com’è noto, il primo argomento è da molti anni stato criticato in modo convincente dagli stessi Costituenti (in qualche caso già nei lavori dell’Assemblea come fa rilevare Carlo Fusaro nel recente articolo prima citato) i quali ritenevano, a causa dei vincoli della Guerra Fredda, di aver costruito un sistema intimamente contraddittorio tra una Prima Parte molto esigente e una Seconda eccessivamente dotata di poteri di veto. Basti per tutti la ricostruzione di Giuseppe Dossetti, intervistato insieme a Giuseppe Lazzati da Pietro Scoppola e Leopoldo Elia: “Bisogna dire che nella parte strutturale la seconda Commissione è mancata… I principi va[nno] bene, ma invece non abbiamo operato nella parte strutturale che è stata quella che è stata, e di cui vedevamo le insufficienze e i problemi […] Il bicameralismo, un garantismo eccessivo perché si era ancora sotto l’ossessione del passaggio alla maggioranza del Partito Comunista […] Quella che concretamente era la preoccupazione maggiore di De Gasperi era il fatto che il Partito Comunista potesse diventare la maggioranza. Il carattere eccessivamente garantista della Costituzione è nato lì”. La replica di Scoppola è: “Però nella seconda fase dei lavori della Costituente, dopo il maggio 1947, fu invece il Partito comunista che accentuò le posizioni garantiste”; quindi la conclusione di Dossetti è: “Si cumulano i due garantismi e producono la II Parte della Costituzione […] Tutti e due per eccesso di paura dell’altro” (I brani citati riprendono in sintesi il dialogo che si svolge da p. 62 a p. 65 dell’intervista del 1984 uscita postuma nel 2003 per il Mulino.

La seconda obiezione di principio, per molti aspetti strettamente conseguente alla prima, quella relativa all’elettività del Senato, sembra risentire, in molti Autori, a cominciare da Urbinati, di un’implicita assunzione del modello degli Stati Uniti. In quel caso, però, manca il rapporto fiduciario e il sistema, che è congegnato per produrre un governo federale debole, nella convinzione che l’autonomia degli individui sia capace di autoregolazione e che non vada compressa l’autonomia dei singoli Stati, vede per questo il Senato come un contropotere.

Nelle democrazie con rapporto fiduciario gli elementi principali di contrappeso non possono essere cercati all’americana nel Parlamento inteso come un tutto compatto, distinto e separato dal Governo. Le garanzie sono anzitutto esterne: la giustizia costituzionale, i diversi livelli di governo (a cominciare dal condizionamento che deriva dall’alto, dalle decisioni prese in sede europea), il capo dello Stato, il Consiglio Superiore della Magistratura, i referendum. Tutti aspetti non intaccati dal combinato disposto in discussione: il 54% dei seggi della Camera, destinati alla lista vincitrice, sono inferiori ai tre quinti dei componenti necessari per eleggere i giudici di derivazione parlamentare, ai tre quinti dei votanti per i componenti laici del Csm (tutti quorum rimasti invariati), la revisione costituzionale si complica per la diversa composizione del Senato, il quorum del presidente della Repubblica viene innalzato a quello previsto per il Csm (col rischio di doverlo cedere a priori ai gruppi di opposizione).

 

3.  Le ragioni delle anomalie solo apparenti della legge elettorale: grandi Coalizioni o governi omogenei? Il cuore della legge elettorale è costituito da un meccanismo “majority assuring” per la prima lista, che, almeno a prima vista può sembrare un meccanismo anomalo sul piano comparatistico. Da dove sorge però tale esigenza che non è solo italiana? La crescita dell’importanza dell’Unione europea come livello decisionale e la sua difficoltà a trovare una sintesi coerente tra due esigenze (il rigore finanziario dei paesi del Nord, lo stimolo allo sviluppo nei Paesi del Sud) ha fatto sì che nei vari sistemi di partito alla frattura principale destra/sinistra si sia aggiunta anche quella tra pro-europei e anti-europei (questi ultimi nei Paesi del Nord accusano i propri governi di eccessiva mollezza nel contrastare i deficit del Sud e, viceversa, nei Paesi del Sud attribuiscono i loro mali quasi solo all’egemonia tedesca). In assenza di innovazioni istituzionali tese a frenare questa frammentazione crescente, vari sistemi politici sembrano condannati ad allargare le proprie coalizioni di Governo, per lo più nel senso di Grandi coalizioni che isolino i partiti populisti, ma, così facendo, i partiti di centrosinistra e di centrodestra una volta alternativi prestano ancor più il fianco alla critica populista che li denuncia come parti poco distinguibili di un medesimo sistema. Le Grandi coalizioni tendono, quindi, a ripetersi ma con sempre meno seggi in Parlamento, specie ai danni degli alleati minori di Governo, visto che il consenso di chi condivide le azioni degli esecutivi tende a concentrarsi sulla forza politica che esprima la leadership di Governo.

C’è un Paese che prima di noi ha visto davanti a sé questo problema e ha deciso di reagire? La risposta è affermativa, si tratta della Francia dove già il referendum del 1992 sul Trattato di Maastricht aveva mostrato l’esistenza di un Paese spaccato a metà su questi temi. La terza coabitazione tra Chirac e Jospin, iniziata nel 1997 che, a differenza delle precedenti, era destinata ad essere lunga, di tipo quinquennale, non una semplice parentesi biennale come le due di Mitterrand-Chirac (1986-1988) e Mitterrand-Balladur (1993-1995), veniva percepita come una sorta di Grande Coalizione e, pertanto, lasciava entrambi gli schieramenti esposti sia alla critica populista anti-europea proveniente dall’estera sinistra sia dall’estrema destra. Per questa ragione, com’è noto, nel 2000 furono decise due importanti riforme: la riduzione a cinque anni del mandato presidenziale e l’inversione del calendario elettorale, stabilendo la precedenza di poche settimane delle elezioni presidenziali rispetto a quelle parlamentari. In questo ferreo schema il Presidente neo-eletto dopo i primi due turni di votazione si ritrova poi, nel suo periodo di luna di miele, tutto il suo elettorato mobilitato per confermargli nei collegi una solida maggioranza parlamentare, mentre gli elettori delle forze soccombenti alle presidenziali finiscono in buona parte per abbandonare il campo in modo da non ostacolare questo obiettivo di coerenza istituzionale. L’esperienza ha dimostrato che quell’innovazione consapevole ha prodotto esattamente i risultati attesi, persino col rischio di eccessi maggioritari nella composizione dell’Assemblea. Chirac nel 2002 partì dal 19,9% dei voti validi al primo turno delle Presidenziali e, dopo la vittoria nell’anomalo ballottaggio su Le Pen (figlio della malattia istituzionale precedente, della coabitazione lunga), ha infine ottenuto 357 seggi su 577 (quasi il 62%). Nel 2007 Sarkozy è partito dal 31,2% dei voti al primo turno ed ha poi ottenuto 345 seggi (59,8%). Nel 2012 Hollande è partito dal 28,6% ed è arrivato a 341 seggi (59,1%). In tutti questi casi, esattamente come previsto, la partecipazione è scesa di circa 20 punti nel passaggio dalle presidenziali alle legislative (da circa l’80% al 60%), per la smobilitazione di parte dell’elettorato perdente alle presidenziali.

La logica del combinato disposto italiano è esattamente analoga a quella del sistema francese post-2000 con la differenza che essa si traduce in una sola elezione maggioritaria a doppio turno eventuale invece di due e un sistema formalmente majority assuring che però si ferma alla soglia contenuta del 54%, mentre quella francese può andare ben oltre, al di là dei quorum che nel nostro ordinamento limitano le maggioranze. Si poteva affidare la disproporzionalità a strumenti diversi come il collegio uninominale, qualora vi fossero state le condizioni politiche necessarie, ossia qualora il centrodestra non avesse abbandonato la storica avversione a tale sistema, accusato di aver impedito la sua vittoria nelle elezioni del 1996?

L’uninominale maggioritario assicura risultati nazionali coerenti, ossia la sperata legittimazione diretta della maggioranza e del Governo, se nella gran parte dei collegi competono i medesimi due partiti o le medesime due coalizioni. Se il quadro territoriale è articolato esso non può evitare due paradossi opposti: o non emerge nessuna forza chiaramente vincente e si è costretti a intese post-elettorali che in molti Paesi con sistemi di partito complessi possono risultare molto lunghe e difficili oppure se la forza più organizzata ha un vantaggio netto sulle altre e queste sono molto frammentate si possono produrre all’opposto effetti iper-maggioritari. La soluzione del premio majority assuring a un livello prefissato sotto i quorum di garanzia appare pertanto un’alternativa più che ragionevole.

L’altro aspetto decisivo pare essere l’esclusione della coalizione e di apparentamenti di lista tra primo e secondo turno. Tali eventualità sono presenti nella legge elettorale comunale e in quella sede non sembrano provocare particolari inconvenienti giacché, però, la forma di governo con l’elezione formalmente diretta del sindaco e la rigidità del simul stabunt simul cadent tra sindaco e consiglio inquadrano in modo forte e disciplinato la maggioranza consiliare. Non potendo riprodurre sul livello nazionale una forma di governo così rigida, che lascerebbe fuori in particolare la classica possibilità di ricambio al vertice del partito di governo quando la leadership uscente è logorata e occorre dotarsi di una nuova in vista delle elezioni successive, un’efficacia analoga si può ottenere solo col premio di lista anziché di coalizione. Il fatto che ci possa essere una certa analogia coi sistemi sub-nazionali in termini di formula elettorale e di forma di governo può far temere un eccesso di concentrazione forse solo se ci si pone ancora in un’ottica di Stati nazionali del tutto indipendenti anziché di Stati che hanno messo in comune larga parte della loro sovranità e che quindi rischiano caso mai il contrario, di pesare di meno nelle decisioni comuni che vanno assunte in sede europea.

 

 [Questo articolo anticipa una parte di quello in preparazione per il numero 3/2105 della rivista, in uscita a metà giugno.]