Il fenomeno Ukip. La vittoria dello Ukip – United Kingdom Independent Party – alle ultime elezioni europee, per quanto non del tutto inattesa, ha provocato un vero e proprio shock in Gran Bretagna, e non solo: da una parte, l’affermazione di Farage rischia di cambiare drammaticamente il panorama politico britannico; dall’altra è aumentato esponenzialmente il rischio che il Regno Unito possa essere il primo Paese ad abbandonare l’Unione europea, una pessima notizia in un clima di montante crisi di legittimità della Ue. Cerchiamo dunque di capire cosa sia questo spauracchio Ukip.

Nato inizialmente dalla defezione dell’ala più euroscettica del Partito conservatore, ha un programma di destra liberista: chiede un forte taglio del Welfare State, a cominciare dalla sanità pubblica e dalla maternità, una diminuzione delle tasse sulle imprese, la cancellazione delle tasse di successione e un forte aumento della spesa militare, oltre a dimostrarsi scettico su temi come il cambiamento climatico e opponendosi dunque a varie legislazioni in materia ambientale.

Il fulcro del programma del partito, però, come suggerisce il nome, è l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea – e infatti il movimento fu creato nel 1993 da Alan Sked in opposizione al Trattato di Maastricht. Lo Ukip è nato facendo, inizialmente, leva su un tradizionale euroscetticismo presente soprattutto tra il gruppo dirigente – e l’elettorato – dei conservatori.

L’euroscetticismo (ma sarebbe più giusto definirlo antieuropeismo) dello Ukip è molto diverso, e antecedente, da quello della maggior parte dei partiti europei che hanno riscosso notevole successo alle ultime elezioni europee. La differenza fondamentale è che la cosiddetta perdita di sovranità a favore di Bruxelles, nel Regno Unito, è ridotta ai minimi termini: la Bank of England è sotto il controllo della politica monetaria, e a Downing Street la Trojka neanche sanno cosa sia. L’austerity è un frutto del governo di coalizione e ha addirittura anticipato quella europea.

E’ certamente vero che anche lo Ukip accusa la Ue di scarsa democraticità, puntando sull’orgoglio “imperiale” dell’elettorato conservatore – non a caso lo Ukip propone un’area di libero scambio con i Paesi del Commonwealth, invece che con l’Europa – e dunque sul primato britannico; ed è anche vero che uno dei principali capi di accusa contro l’Europa è l’eccessiva burocratizzazione. In realtà, però, tradizionalmente, il principale motivo del contendere sono stati i fondi europei e la diffusa percezione tra l’elettorato britannico che la Ue sia un’istituzione inutile, se non dannosa, che chiede alla Gran Bretagna più di quello che dà – un tema da sempre centrale nella politica di Londra se si pensa al famoso rebate di Margareth Thatcher, che impose agli altri Paesi europei di pagare una quota aggiuntiva per ridurre il conto britannico. In realtà, per quanto il contributo della Gran Bretagna al budget dell’Unione continui a essere positivo, la sua partecipazione al mercato unico – che verrebbe meno in caso di uscita – è decisiva per l’economia inglese. Studi recenti mostrano che una fuoriuscita di Londra costerebbe tra 2 e 9 punti percentuali di Pil, una scossa comparabile a quella della crisi finanziaria.

Questa linea politica antieuropea si è poi arricchita negli anni, spostando il centro del problema sull’allargamento a Est dell’Unione e sull’immigrazione intraeuropea, che ha attirato molte persone in cerca di lavoro nel Regno Unito.

I dati non sono certo drammatici: il Regno Unito non è in cima alle preferenze dei lavoratori europei: Germania (3,7 milioni), Spagna (2,5), Francia (2,4) hanno tutti un numero di immigrati europei maggiori che il Regno Unito (2,2) – l’Italia è ben al di sotto con 1,2 milioni di cittadini europei residenti nel nostro Paese. Di contro, ben 1,4 milioni di cittadini britannici vivono nel resto d’Europa. Va notato inoltre come solo il 30% degli immigrati in Gran Bretagna sia di origine europea. Ciò nonostante, lo Ukip, cavalcando anche le campagne demagogiche di molti tabloid, ha impostato una politica populista sulla paura dello straniero: da una parte, in concomitanza con la crisi economica, si è imputata agli stranieri (soprattutto est-europei) la perdita di posti di lavoro e la riduzione dei salari; dall’altra, in un momento di austerity e di tagli alla spesa pubblica, si è speculato sull’idea che molti migranti siano benefit stealer, vengano cioè in Uk non per lavorare ma per reclamare i benefici del Welfare State britannico, dalla sanità pubblica, all’assistenza familiare, all’abitazione. Sono accuse senza fondamento: l’immigrato medio in Uk (soprattutto quelli più recenti) è più istruito e ha più skill del lavoratore medio britannico, impattando dunque positivamente la produttività e la crescita economica e non aumentando la disoccupazione o riducendo i salari; e il contributo netto dei migranti europei alle finanze dello stato – tasse pagate meno benefit ricevuti – è nettamente in attivo.

I numeri, però, contano poco nelle campagne populiste – grazie alle quali lo Ukip ha notevolmente allargato la propria base elettorale, non più circoscritta alle roccaforti Tories, ma cominciando a sfondare nelle zone più tradizionalmente Labour, dove la crisi economica di questi anni è stata più forte. Il fenomeno Ukip è stato talmente forte che ha spostato notevolmente a destra il dibattito politico, con Tories e una parte dei Labour pronti a inseguire Farage sul tema dell’immigrazione.

Questo clima infuocato rischia di avere ripercussioni molto serie: il prossimo anno si terranno le elezioni generali e in caso di vittoria dei conservatori si terrà un referendum sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione europea, con esiti imprevedibili. Il rischio è che lo Ukip – e le sue campagne populiste – mandino all’aria il sistema politico inglese e ridisegnino i confini dell’Europa.