Il successo di Erdogan. Il rischio di un tracollo era reale, ma Recep Tayyip Erdoğan e il Partito della giustizia e dello sviluppo hanno vinto anche le amministrative di ieri. A spoglio praticamente concluso – ma i dati sono ufficiosi, non ufficiali – l'Akp si attesta infatti tra il 45 e il 46%, circa 4 punti meno delle politiche del 2011 ma 7 in più rispetto alle amministrative del 2009, seguito dal Chp kemalista al 28%, dal Mhp nazionalista al 15%, dal Bdp/Hdp filo curdo con circa il 5%. Quel che è più importante, però, è che il partito del premier conserva le due città decisive di Istanbul e Ankara: la prima nettamente, la seconda sul filo del rasoio dopo che i due contendenti – il sindaco uscente dell'Akp, Melih Gökçek e lo sfidante Chp, ma ex Mhp, Mansur Yavaş – avevano entrambi proclamato la vittoria in serata. Le operazioni di spoglio sono state in effetti caotiche: silenzio da parte della Suprema commissione elettorale (Ysk), dati contrastanti diffusi dalle agenzie di stampa, segnalazioni di irregolarità comunque episodiche, black-out sospetti; sul trionfo politico di Erdoğan non ci sono però dubbi: le elezioni erano sostanzialmente un referendum sulla sua leadership politica, la risposta è stata nel complesso positiva. Pe il resto, ognuno ha mantenuto le proprie roccaforti: l'Akp in Anatolia centrale, il Chp e il Mhp prevalentemente sulle coste, il Bdp a Est.

La campagna elettorale è stata durissima e ha messo alla prova la tenuta del sistema democratico turco, ancora in fase di costruzione. Tutto è partito dall'inchiesta anti-corruzione del 17 dicembre, che ha toccato le alte sfere del governo e direttamente la famiglia del primo ministro: sono seguiti avvicendamenti di massa dei magistrati e delle forze di polizia responsabili, accusati di aver costituito uno “Stato parallelo” agli ordini dell'imam Fethullah Gülen, che vive negli Usa; una campagna di delegittimazione attraverso registrazioni scottanti e incriminanti diffuse online; la riforma in tutta fretta dell'organo di governo della magistratura – sottoposto all'esecutivo – e una legge restrittiva su Internet; il blocco di Twitter, voci su di un video a luci rosse con Erdoğan e una miss, una registrazione di una conversazione tra i vertici politici e militari sulla politica siriana, il blocco conseguente di YouTube.

Il primo ministro – nei suoi numerosissimi comizi, fino a perdere la voce – ha usato una retorica aggressiva, ha chiamato i suoi sostenitori a raccolta per difendere la Turchia dai suoi “nemici” interni ed esterni e ieri, a mezzanotte, parlando dal balcone della sede del partito ad Ankara, ha detto senza mezzi termini che la farà loro pagare; al suo fianco il figlio Bilal, protagonista dell'inchiesta anti-corruzione e di una registrazione particolarmente scomoda: ma dopotutto, Erdoğan si è costantemente difeso parlando di registrazioni montate ad arte, e il voto a suo favore lo considera una sorta di assoluzione popolare. La resa dei conti coi gülenisti/paralelçi potrebbe essere allora imminente: ma non possono escludersi sorprese, perché tra pochi mesi ci saranno le elezioni presidenziali e il leader dell'Akp – candidato quasi sicuro – sarà sicuramente oggetto di nuovi attacchi.

Le elezioni di ieri confermano comunque un dato essenziale: è decisivo il Sud-Est a maggioranza curda, dove l'Akp ottiene buoni risultati e dove il Chp è praticamente assente con l'1-2% dei voti. La strategia del maggior partito di opposizione – conquistare le città-simbolo di Istanbul e Ankara con candidati “esterni” e popolari, per provocare l'implosione dell'Akp – non ha pagato: ha condotto una campagna elettorale poco propositiva, fitta di slogan ma scarna in progetti; il suo modesto incremento percentuale – appena 3 punti rispetto al 2011 – in condizioni particolarmente favorevoli è sostanzialmente una sconfitta: e la stessa leadership di Kemal Kılıçdaroğlu è a rischio. Ha pagato, invece, il processo di pace avviato con Abdullah Öcalan e il Pkk: per far cessare la guerra civile che durava da trent'anni, per rendere finalmente i 15/20 milioni di curdi cittadini a pieno titolo. Ed è soprattutto da loro che dipende il sogno presidenziale di Erdoğan: oltre che dall'indispensabile ritorno alle riforme democratiche, per stemperare le tensioni interne e rassicurare i partner occidentali.