In molte occasioni l’Unione europea ha manifestato la propria volontà di esercitare un ruolo di avanguardia nella lotta ai cambiamenti climatici in atto, dipendenti, in larga parte, dall’attività dell’uomo. Quando, nel marzo 2007, il Consiglio europeo ha deliberato unilateralmente di ridurre del 20%, rispetto al 1990, le emissioni nell’atmosfera dei gas a effetto serra (in particolare di CO2), dichiarando la propria disponibilità a salire al 30% (e al 60-80% entro il 2050), gli stessi movimenti ambientalisti sono stati colti di sorpresa. Questi, infatti, si attardavano ancora a difendere le disposizioni del Protocollo di Kyoto, di cui avevano fatto una bandiera, che fissavano entro il 2015 target di riduzione delle emissioni del tutto irrisori e soprattutto superati rispetto al Rapporto di valutazione del IPCC (Intergovernemental Panel on Climate Change) del 2007, che aveva rivelato la reale gravità della situazione climatica del pianeta e l’urgenza di adottare provvedimenti risoluti.

Con la citata deliberazione, dunque, l’Ue si impegnava ad andare ben oltre le prescrizioni del Protocollo di Kyoto, e in particolare:

  • a portare almeno al 20% entro il 2020 la quota di energia elettrica generata da fonti energetiche rinnovabili (con ciò riconoscendo ufficialmente la già attuale validità della soluzione energetica ecologica basata sulle fonti solari ed eoliche);
  • a ridurre del 20% entro il 2020 il consumo totale di energia, migliorando l’efficienza energetica e l’utilizzo razionale di energia nel settore dell’edilizia, dell’industria e dei trasporti;
  • a impiegare biocarburanti nei trasporti, in misura non inferiore al 10% dei consumi di benzina e gasolio.

Anche a causa della crisi economica in atto, questi obiettivi sono già stati centrati in molti Paesi, e sono per l’intera Ue a portata di mano. In Italia, ad esempio, al 30 giugno 2013, la percentuale di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili (compresa quella idroelettrica) superava già il 50% della produzione totale.

D’altra parte, l’aggiornamento del 2013 del Rapporto IPCC ha messo in luce che le conclusioni già di per sé allarmanti del 2007 (rischio di aumento della temperatura media del pianeta nel 2100 compreso tra 2 e 5 gradi centigradi) andavano considerate approssimate per difetto, in quanto il riscaldamento dell’atmosfera e degli oceani, la riduzione di copertura di neve e di ghiaccio, l’aumento dei livelli dei mari e la concentrazione dell’atmosfera dei gas a effetto serra, osservate a posteriori, stavano avvenendo a ritmi superiori alle previsioni. E gli eventi meteorologici estremi e i disastri naturali che si stanno verificando in tutto il mondo non fanno che confermare, empiricamente, le osservazioni scientifiche.

Del tutto giustificata appare quindi la proposta della Commissione al Consiglio europeo di accelerare il contenimento delle emissioni nell’atmosfera al 40% (rispetto al 1990) entro il 2040 e di portare al 27,5 la quota di energia prodotta mediante fonti rinnovabili. La proposta della Commissione, tuttavia, è stata giudicata dagli ecologisti troppo “blanda” e dalle imprese “insostenibile”. In realtà i nuovi obiettivi proposti sono coerenti rispetto alla roadmap che l’Unione si era data nel 2007 e si limitano a proiettare in una data intermedia (il 2040) i trend di miglioramento ambientale in atto nell’intera Ue, senza stress particolari. Inoltre stabilire dei target intermedi rafforza la credibilità e l’efficacia degli obiettivi fissati per il 2050. La posizione della Commissione europea, infine, riafferma il ruolo d’avanguardia dell’Unione rispetto alle aree economiche responsabili, nel complesso, dell’80% dell’emissione nell’atmosfera di gas a effetto serra (Cina, Stati Uniti, India, Unione europea, Indonesia, Brasile, Russia, Giappone, Sud Africa).

È chiaro che per risolvere il problema del riscaldamento globale non sono sufficienti (anche se necessari) miglioramenti circoscritti a una sola delle aree interessate. Il problema ha assunto dimensioni “globali” e richiede soluzioni “globali” che devono essere adottate insieme dai Paesi inquinatori, altrimenti impotenti a fronteggiare individualmente fenomeni che non conoscono frontiere. Dopo la Conferenza delle Parti di Varsavia, tenutasi nel novembre 2013, l’obiettivo dichiarato è di raggiungere un accordo vincolante sulla riduzione delle emissioni di gas serra nell’atmosfera durante il Summit dei capi di Stato e di governo previsto a Parigi alla fine del 2015.

Da quanto emerso nei lavori preparatori di Varsavia, la possibilità di un tale accordo è condizionata dal fatto che i Paesi sviluppati (prima di tutto gli Stati Uniti) riconoscano il principio, che è sostenuto da tutti i Paesi in via di sviluppo e che ci pare equo e legittimo, in base al quale le riduzioni progressive di emissioni di gas serra vengano calcolate sulle emissioni attuali “pro-capite” e non su quelle “totali” (soluzione, quest’ultima, che penalizzerebbe, in modo inaccettabile, i Paesi emergenti). Per essere efficace, l’attuazione dell’Accordo dovrebbe essere affidata a una nuova istituzione, “l’Organizzazione Mondiale per l’Ambiente”, operante nell’ambito dell’Onu, dotata di effettivi poteri e finanziata da adeguate risorse proprie. Tenendo conto delle posizioni che stanno emergendo, in particolare da parte di Obama e di Kerry, è lecito nutrire un filo di speranza.