A trent’anni dal 14 febbraio 1984, che ne è del progetto Spinelli? Pochi cittadini europei sanno che il 14 febbraio 1984, otto anni prima della nascita dell’Unione odierna, il Parlamento europeo aveva già votato a grande maggioranza (237 sì, 31 no, 43 astenuti) un «Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea». Grazie all’azione dei deputati riuniti nel cosiddetto «club del coccodrillo» – europei noncuranti delle diverse provenienze politiche e nazionali – il primo Parlamento sovranazionale democraticamente eletto aveva avuto la forza di agire come legittimo luogo costituente: redatto da un’apposita Commissione istituzionale, la proposta Spinelli fu il primo compiuto tentativo di «trattato costituzionale»; un ibrido ambizioso ma al contempo realizzabile, pesato con realismo per vincere le reticenze dei Paesi membri. Un esperimento che fece scuola, tornando di grande attualità tra il 2002 e il 2003, quando una Convenzione democratica composta in maggioranza da parlamentari nazionali ed europei redasse un secondo «trattato costituzionale». Passato al vaglio della consueta Cig, questo testo venne affossato in fase di ratifica a seguito delle bocciature referendarie in Francia e Olanda: similmente all’Atto Unico, anche il Trattato di Lisbona attualmente in vigore è figlio di un compromesso al ribasso, o, per meglio dire, dell’ennesimo fallimento costituzionale dell’Europa funzionalista.

In occasione della sua recente visita a Strasburgo, Giorgio Napolitano ha analizzato con grande lucidità le ragioni dell’affievolirsi del disegno europeo, sottolineando proprio l’attualità politica dell’iniziativa parlamentare di trent’anni or sono: l’ultima sconfitta di Altiero Spinelli non fu un’occasione persa per il solo fronte federalista, fu una sconfitta per tutti i cittadini degli allora 12 Paesi membri. Una sconfitta della nascente e mai nata democrazia europea i cui effetti tornano a sentirsi oggi, di fronte alla sempre più scettica opinione pubblica dell’Europa di Maastricht allargata a Est. La questione, tanto cruciale quanto inevasa, è sempre la stessa; ed è racchiusa nella domanda che Spinelli ha posto, con coerenza e realismo, da qualsiasi posizione istituzionale abbia avuto occasione di battersi: può davvero nascere una nuova forma di cittadinanza dall’intensificarsi di soli legami economici?

Si è discusso a lungo, forse un po’ accademicamente, su quali riforme del Progetto Spinelli siano state riprese dai trattati successivi: tra le più importanti spiccano certamente il procedimento di codecisione legislativa tra Parlamento e Consiglio, la formalizzazione del principio di sussidiarietà, l’istituzione della cittadinanza europea. Sarebbe altrettanto interessante chiedersi se e quali modifiche di tenore spinelliano trovino oggi posto nel Trattato di Lisbona – un testo certamente figlio dalla delusione, ma che “nasconde” nei suoi articolati “più Costituzione” di quanto sia deducibile dalla sua mostruosa struttura. Simili ragionamenti, bisogna dirlo, non sono però spendibili politicamente di fronte alle opinioni pubbliche europee, tra cittadini talmente esausti dei tecnicismi di Bruxelles da cominciare a contestare, forti di ciò che faticano a comprendere, la scelta stessa dell’integrazione.

Il problema bipartisan cui assistiamo oggi – un fatto di cui le classi dirigenti dei Paesi europei sono gravemente corresponsabili – è infatti l’assenza di argomentazioni politiche genuinamente europee. Il qualunquismo affligge drammaticamente entrambi i fronti: la scarsa qualità politica dei movimenti anti-Europa fa da pendant al retorico europeismo senza visione delle maggioranze al governo nei vari Paesi europei. A pochi mesi dalle elezioni di maggio, in un clima che prelude alla tempesta, la scelta si presume binaria – “i conservatori” per la salvaguardia dell’Europa come la conosciamo, “i rivoluzionari” per il ritorno alla democrazia nazionale – mentre solo poche voci isolate hanno il coraggio della complessità, affermando un dato di fatto elettoralmente scomodo: ovvero che nessuno di questi due scenari è, nel lungo periodo, né auspicabile né praticabile. Nel silenzio europeo, come sempre coperto dai fragori delle arene nazionali, svetta solitario il messaggio di Alexis Tsipras, il quale ha fatto proprio un concetto marcatamente spinelliano: l’Europa si cambia in Europa, a partire dall’esistente.

Alla luce dei problemi odierni, lungi dall’essere un colto esercizio di malinconia europeista, le ragioni del ricordo del Progetto Spinelli sono dunque squisitamente politiche, poiché, così come evidenziato da Giorgio Napolitano, nell’idealismo realista di quel testo e di quella vicenda è custodita la chiave del nostro futuro. Il dilemma dell’Europa – una realtà che i politici di ogni Paese hanno paura di affrontare di fronte alle loro opinioni pubbliche nazionali – è un dilemma costituzionale. Le procedure di redazione, firma e ratifica dei trattati precedenti e successivi al Progetto Spinelli hanno sempre negato qualsiasi costituzionalità formale all’assetto europeo: parallelamente all’affermarsi di dinamiche costituzionali sostanziali – concretizzatesi, ad esempio, nel principio di supremazia del diritto comunitario sancito dalla Corte di Giustizia europea – dal 1951 a oggi nessun trattato europeo ha invece mai costituito una fonte di legittimità autonoma dalla legalità preesistente, quella degli Stati. D’altro canto, l’unanimità delle ratifiche era e rimane coerente alla stipula intergovernativa dei trattati, un procedimento cui nemmeno il cosiddetto "Trattato costituzionale" del 2004 ha fatto eccezione.

Contrariamente a tutto ciò, il Progetto Spinelli nacque in Parlamento. Contrariamente a tutto ciò, Spinelli voleva trasmetterne il testo direttamente ai Parlamenti nazionali, bypassando, in un colpo solo, sia la convoca di una Conferenza intergovernativa sia l’unanimità delle ratifiche: nel caso in cui non tutti gli Stati membri avessero ratificato, il secondo comma dell’articolo 82 del Progetto prevedeva l’entrata in vigore nella maggioranza dei Paesi ratificanti "la cui popolazione costituisca i 2/3 della popolazione complessiva della Comunità". Ecco spiegato il carattere rivoluzionario del Progetto – nonché, spiace dirlo, la ragione del suo fallimento: in esso il dilemma costituzionale dell’Europa veniva affrontato a livello europeo da un’istituzione direttamente eletta e non, come sino ad oggi è sempre accaduto, a livello intergovernativo tra Stati sovrani.

Sospese tra nuove entità politiche e semplici organizzazioni internazionali, giuridicamente fondate su trattati internazionali che, seppur su base pattizia, hanno via via trasferito prerogative di natura costituzionale a un potere europeo, le Comunità del passato e l’Unione odierna sono, nei loro pregi e nei loro difetti, il risultato diretto dell’irrisolto conflitto tra le dinamiche intergovernative e le dinamiche costituzionali che le governano, forze antitetiche ma compresenti nel processo d’integrazione funzionalista così come voluto, coscientemente, dai padri fondatori. Com’è ovvio, comprendere le ragioni storiche di questa scelta complessa non significa, per forza, aderirvi. Ma è altrettanto vero che chiunque, oggi, si prefigga di agire seriamente in Europa dovrà ricominciare da Altiero Spinelli: dovrà muoversi nella contingenza a partire dal dilemma fondativo. Forti di questo esempio e dell’unica reale prospettiva ideale rimasta alle “generazioni post” di un continente vecchio, i cittadini e i politici d’Europa hanno oggi l’obbligo di essere migliori di ogni facile retorica europeista o eurodistruttrice: di scegliere, con realismo spinelliano, se e come battersi per questa nostra difficile Unione.