Un tempo effettivo di permanenza in università notevolmente più lungo della durata teorica, e dunque un consistente numero di cosiddetti «fuori corso» sono stati una costante caratteristica degli studi universitari italiani. Tra gli obiettivi della riforma degli ordinamenti didattici del 1999, il 3+2, vi è certo stato anche quello di favorire una struttura più regolare dei percorsi di studio. Il tema oggi è molto seguito e un vivace dibattito si è recentemente sviluppato su di esso, con frequenti richiami, peraltro, al fatto che il fenomeno è alquanto diffuso e non è isolato all’Italia. 

In questa nota vorrei toccare i due punti cruciali: il confronto internazionale e i risultati del 3+2. Sotto entrambi gli aspetti, conclusioni nette e precise non sono oggi possibili. Ma il problema italiano sembra rimanere rilevante.

Education at a Glance dell’OCSE è il riferimento per il confronto internazionale. L’età media del conseguimento di una laurea - l’OCSE sottolinea - è assai variabile tra i paesi, in connessione a una ampia serie di fattori. Le comparazioni non possono dunque essere considerate particolarmente significative. In ogni caso, nella pubblicazione 2011 il dato Ocse per l’età media in Italia è 26 anni. Una indicazione più interessante sulla posizione relativa dell’Italia è offerta dal confronto tra i giovani in education nella fascia di età 25-29 anni e i laureati nella fascia 30-34 anni, come illustrato in tabella              

Giovani in education e laureati (%) – 2011

 

25-29enni in education

Laureati 30-34enni

Italia

16,2

20

Francia

4,9

43

Germania

18,5

31

Spagna

13,2

41

UK

13,7

48

Media Ocse

15,8

39


Passando al secondo punto, risposte conclusive sulla incidenza della riforma 3+2 sul fenomeno dei fuori corso non sono oggi possibili. La revisione della riforma nel 2004 (D.m. 270) ha infatti inserito un nuovo punto di rottura nella organizzazione della didattica, ridefinendo le classi dei corsi di laurea con le relative distribuzioni di crediti per attività formative ed ambiti disciplinari. I fuori corso biennali e triennali nell’ambito del D.m. 509 e del D.m. 270 non sono omogenei e pertanto confrontabili. La rilevanza della limitatezza dei tempi di applicazione della riforma è evidente se si pensa che le lauree specialistiche del D.m. 509 sono state quasi tutte attivate a partire dall’anno 2004-2005 e che successivamente sono state ridisegnate, a seguito del D.m. 270, a partire dal 2008-2009. Solo in Italia la quota di 25-29enni in education - presumibilmente in larghissima misura in corsi universitari – è assai vicina alla quota dei laureati 30-34enni. La differenza è minima rispetto a ciò che si registra nei paesi considerati e alla media Ocse. Nella media Ocse i laureati 30-34enni sono una percentuale più che doppia rispetto a quella dei 25-29enni in education, ciò che indica corposi raggiungimenti di un titolo di studio universitario prima della soglia dei 25 anni. La notevolissima differenza tra le due quote nella media Ocse e nei paesi considerati segnala tempi effettivi di laurea in Italia decisamente superiori rispetto al quadro Ocse. Questa segnalazione non è indebolita dal fatto che sulla vicinanza delle due quote in Italia incide anche la consistente mole dei passaggi dal triennio alla laurea magistrale.

In questo quadro l’informazione maggiore che può essere estratta dai dati attuali si ottiene considerando i primi corsi triennali attivati dalla riforma 3+2, per un periodo tuttavia limitato di tempo. La possibilità di passaggi degli studenti dai corsi sub D.m. 509 ai corsi sub D.m. 270 inserisce infatti ovvie distorsioni sulle quote di fuori corso di entrambe le categorie.

Con questi vincoli è stata condotta un'indagine specifica (C. Conigliani, P. Potestio, «Rivista di Politica Economica», n. 3/2013, pp. 61-80.) sui tempi effettivi di laurea nei corsi di laurea triennali delle Facoltà di Economia attivati nell’anno accademico 2001-2002. L’anno di riferimento dell’indagine è il 2007-2008, anno che consente una significativa considerazione di un massimo di quattro anni teorici di studio fuori corso. È da escludersi infatti fino questo anno la possibilità di passaggi ai nuovi corsi del D.m. 270. L’universo dell’indagine è costituito da corsi triennali attivati nell’anno accademico 2001-2002, attivi nell’anno 2007-2008 (nel preciso senso che erano oggetto di immatricolazioni) e che registravano in tale anno almeno 100 iscritti e 20 laureati. 177 sono così i corsi di laurea analizzati.

Sintetizzo i risultati, non confortanti, dell'indagine. Nell’insieme dei corsi, la quota di laureati fuori corso sul totale dei laureati è pari al 59,2% e il numero medio di anni fuori corso è pari a due anni. Rilevanti sono le differenze di genere e, soprattutto, le differenze territoriali. La quota di laureate fuori corso è 56,5%, quella dei laureati 62,2%. La quota aumenta fortemente da Nord a Sud: è pari al 44,6% nell’insieme dei corsi dell’area settentrionale, al 65,3% nell’area centrale e al 78,2 nell’area meridionale. Per quanto riguarda i tempi effettivi di laurea, la differenza è meno accentuata rispetto a quella delle quote di laureati fuori corso, ma comunque rilevante: in media lo studente fuori corso si laurea al Nord con un anno e 10 mesi circa di ritardo, al Centro con due anni, al Sud con 2 anni e tre mesi circa.

Un esercizio econometrico diretto a verificare l’incidenza di alcuni fattori sulla dimensione di fuori corso dà risultati interessanti. Non hanno intanto alcuna incidenza sul fenomeno né i tassi territoriali di disoccupazione dei laureati né i finanziamenti dello stato ai singoli atenei. Le condizioni del mercato del lavoro non sembrano esercitare un significativo incentivo/disincentivo alla regolare conclusione del corso di studio. Forse meno sorprendente è il fatto che non emerga una relazione significativa tra le erogazioni dello stato ai singoli  atenei e i risultati dei singoli atenei, considerato che le erogazioni sono state in misura nettamente prevalente ancorate alla cosiddetta “spesa storica”. Una significativa relazione negativa emerge invece tra i risultati dei test Invalsi e la quota dei laureati fuori corso, e una positiva relazione significativa emerge tra il numero di iscritti e la quota di laureati fuori corso nell’area meridionale. I più bassi livelli di preparazione-apprendimento registrati dai test Invalsi nel Sud hanno dunque un peso significativo nella più elevata dimensione dei laureati fuori corso nell’area. Dalla seconda relazione significativa  si aggiungono inoltre, nel Sud, presumibili difficoltà di gestione o organizzative dei corsi di laurea crescenti al crescere della dimensione del corso. Entrambe le relazioni esprimono, in sintesi, una relativa maggiore debolezza dell’area meridionale.

Due considerazioni conclusive. Il fatto che le informazioni oggi trattabili sono limitate e relative al primo corpo di regole della riforma obbliga a una certa cautela nel trarre conclusioni. Tuttavia, pur nella limitatezza dei dati disponibili, un'indagine specifica segnala quanto meno che il problema rimane aperto dopo la riforma 3+2. Una struttura più regolare dei percorsi di studio è un obiettivo ancora da raggiungere.