La generazione dei quarantenni urge alle porte del Paese, rivendica una presenza in politica, nelle professioni, nella cultura, nell’università. Offuscata, ignorata, paternalisticamente blandita  dalla generazione dei padri/madri, è  invecchiata “in panchina”, come recita il sottotitolo autoironico del  pamphlet di Andrea Scanzi, che di questa “generazione di mezzo” è un rappresentante noto.

Quando Enrico Letta ha proclamato che il 2013 sarebbe stato l’anno della “svolta generazionale”, non pensava solo a se stesso (nato nel 1966), ma ad altri attuali protagonisti della vita politica italiana, come Angelino Alfano (nato nel 1970) e, soprattutto, Matteo Renzi, il più giovane (nato nel 1975), che della “rottamazione”, ossia del ricambio generazionale, usando i termini neutri della demografia, o dell’uccisione del padre, usando quelli emotivamente forti della psicanalisi, ha fatto il suo primo cavallo di battaglia.

Che il nostro sia stato e sia ancora un Paese gerontocratico, oltreché maschile (nelle banche, nelle imprese, nell’Università e in quasi tutte le organizzazioni che contano) è ampiamente dimostrato dai dati sfornati dagli istituti di statistica nazionali ed europei e non occorre ritornarci sopra. Fanno bene quindi i giovani, in particolare quelli che da un bel po’ hanno varcato la “linea d’ombra”, a chiedere a gran voce un cambiamento. Il problema non è certo questo: hanno ragioni da vendere. Il problema è che tutti - adolescenti, giovani, meno giovani, anziani, vecchi -  vogliono, quasi agognano a questo cambiamento, desiderano smuovere la palude in cui da vent’anni come italiani siamo immersi fino al collo.  

L’idea che non funziona è che dietro i quarantenni e quasi-quarantenni, cresciuti negli anni Ottanta, tra la cupezza del terrorismo, la calda protezione della famiglia, e il mondo guasto là fuori, con le ideologie rottamate ben prima degli ideologi, senza poter rielaborare ed eventualmente contestare una memoria storica che la generazione dei padri (che è poi quella “mitica” del ’68) non è stata capace di trasmettere, ci sia davvero una “generazione”, ossia qualcosa di più di un insieme eterogeneo e disperso di coetanei o quasi-coetanei. La generazione, come la conoscono i sociologi, fin dai tempi del famoso testo di Karl Mannheim del 1928 (Il problema delle generazioni), non è definita dal mero dato biologico, il succedersi di vita e morte, la casualità dell’essere venuti al mondo negli stessi anni.

La generazione va ben oltre il mero dato anagrafico. Infatti non tutti coloro che hanno la stessa età fanno parte di una  generazione, perché per farne parte è necessario che si crei un’“unità di generazione”, un legame stretto, che implica un senso di appartenenza, una reazione comune e un comune orientamento rispetto ai particolari eventi e alle  esperienze storiche vissute. La generazione, nei termini indicati da Mannheim, diventa una sorta di soggetto collettivo con una identità, stili di pensiero, modi di agire e di rapportarsi al mondo specifici, irripetibili, come specifiche e irripetibili sono le esperienze storiche rilevanti che li hanno formati (guerre, rivoluzioni, movimenti collettivi).

I giovani dell’età di mezzo, non posseggono nessuna di queste caratteristiche. Individualisti, perché questi sono i valori dominanti, si affannano per essere riconosciuti. Giusto. Ma lo possono essere dagli altri e da se stessi con molta più fatica di quella che, nel bene e nel male, è stata l’unica generazione del dopoguerra: la generazione del ’68. Non avendo una visione del mondo e della società che li accomuni, né un linguaggio e uno stile di vita condivisi, si devono accontentare di competere con i più giovani e i più vecchi per mostrare il loro valore, singolarmente, senza scorciatoie generazionali. Hanno il compito della prova. Renzi questo lo sa benissimo. Ma attenzione, come recita il titolo del libro prima citato, preso a prestito da una canzone di Ligabue, “Non è tempo per noi”. Aggiungo: è tempo per tutti quelli che hanno idee e vogliono impegnarsi : “E il solo fatto di specchiarci in Ligabue – dice ironicamente Scanzi – fa capire che abbiamo sbagliato pure i Battisti di riferimento”.