Addio Madiba. Con la morte di Nelson Mandela si chiude una delle pagine più intense della storia recente del Sudafrica: quella della lotta contro il regime dell’apartheid, che il presiedente più di ogni altro, ha rappresentato a livello nazionale e internazionale.

Nato nel 1918 in un ramo cadetto della famiglia reale del popolo Thembu, studiò legge e intraprese una brillante carriera di avvocato a Johannesburg. Ben presto, tuttavia, la sua attività politica prese il sopravvento su quella legale. Entrato nelle fila dell’African National Congress, Mandela fu uno degli artefici della decisione assunta dal partito nel 1961 di avviare la lotta armata contro il regime dell’apartheid. Fu proprio al ritorno da un viaggio compiuto all’estero per sollecitare il sostegno internazionale alla lotta dell’ANC che fu arrestato dalla polizia sudafricana nel 1962 e condannato all’ergastolo.

Paradossalmente fu il lungo periodo di incarcerazione a segnare la sua affermazione come il leader della lotta contro l’apartheid tanto a livello nazionale quanto internazionale. E mentre durante gli anni Settanta e Ottanta il Sudafrica sprofondava in una sempre più grave crisi politica ed economica, in carcere Mandela si convinceva della necessità di intraprendere un tentativo per condurre il Sudafrica alla democrazia evitando un bagno di sangue. La sua intuizione si sarebbe rivelata tutt’altro che facile da realizzare. Già a metà degli anni Ottanta tentò di aprire un canale di dialogo con il governo bianco guidato da Pieter Willem Botha, senza grandi risultati. Alla fine, la capacità di leggere la storia e la tenacia di Mandela ebbe la meglio sull’intransigenza dell’establishment politico bianco. Davanti alla gravità della crisi interna, ai segnali di trasformazione del quadro strategico regionale e al venir meno della Guerra Fredda, nel febbraio del 1990 il nuovo presidente sudafricano Willem de Klerk decise di liberare Mandela e di legalizzare l’ANC, in modo da avviare le trattative per la transizione alla democrazia.

Il compromesso politico che vide lentamente la luce prevedeva da una parte l’adozione del principio dell’uguaglianza politica tra tutti i cittadini sudafricani e, dall’altra, la rinuncia da parte dell’ANC ad attuare misure radicali di redistribuzione delle risorse economiche del Paese. Così, dopo quattro anni di gravi violenze e duri negoziati, per la prima volta nell’aprile del 1994 l’intero popolo sudafricano si recò alla urne per eleggere il parlamento del paese. Da quelle elezioni l’ANC uscì largamente maggioritario e Mandela divenne il primo presidente nero del Sudafrica.

I cinque anni della sua presidenza furono contraddistinti da luci (in primis la politica di riconciliazione con la minoranza bianca e con l’Inkatha Freedom Party e il reingresso del Sudafrica nella comunità internazionale), ma anche da alcune ombre (l’attuazione di una politica economica incapace di fornire risposte efficaci alle attese di riscatto economico e sociale della popolazione nera, la timida risposta del governo al dilagare dell’epidemia di HIV/AIDS e alcuni insuccessi nella politica regionale).

Al termine del mandato presidenziale Mandela decise di ritirarsi dalla politica attiva, forse consapevole del fatto che una volta realizzato il “miracolo” della transizione pacifica alla democrazia, toccava ad altri assumere il compito di trovar risposte efficaci alle sfide politiche, economiche e sociali che il Sudafrica democratico doveva affrontare. Sfide che rimangono ancora oggi del tutto aperte e che sarà senza dubbio più difficile vincere ora che il Sudafrica – come tutti noi – rimane privo del Madiba.